Al termine di una tesissima giornata di consultazioni politiche e militari nella Situation Room, il presidente americano, Donald Trump, aveva ordinato nella serata di ieri (quando in Italia era notte fonda, ndr) attacchi mirati su una manciata di obiettivi iraniani (radar e batterie missilistiche lungo la costa) da colpire in rappresaglia per l’abbattimento di un drone da sorveglianza della Us Navy ordinato dalla catena di comando dei Pasdaran. Ma poi, inaspettatamente, Trump ha ordinato di fermare tutto, annullare l’ordine sui bombardamenti, quando già gli aerei erano in cielo e le navi nel Golfo posizionate per l’attacco.
LE RAGIONI DEL DIETROFRONT
Non è chiaro ancora a cosa sia legato effettivamente il dietrofront: se il presidente ha cambiato decisione ascoltando tutte le reticenze che dimostra da settimane (o meglio, da sempre rispetto agli impegni militari, che considera un costoso impegno economico), oppure la scelta è stata legata a necessità logistiche, tattiche o strategiche. Ancora non è comunque esclusa una risposta militare. Secondo quanto riportano i media americani, che hanno seguito gli sviluppi delle riunioni alla Casa Bianca tramite i corrispondenti (e sono gli unici realmente informati dei fatti), durante una riunione serrata iniziata alle nove di sera è andata avanti per più di un’ora e mezzo, s’è creata una spaccatura tra gli apparati statunitensi. Da una parte il segretario di Stato, Mike Pompeo, il consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, e la direttrice della Cia, Gina Haspel, che consigliavano l’attacco per punizione e deterrenza nei confronti di Teheran, che da settimane reagisce aggressivamente all’altrettanto politica aggressiva della “massima pressione” scelta da Washington contro la Repubblica islamica: e un conto sono operazioni asimmetriche plausibilmente negabili come i sabotaggi alle petroliere, un conto è l’abbattimento di un velivolo senza pilota della marina statunitense; questo va punito severamente, dicono i falchi.
FALCHI E COLOMBE
Dalla parte di chi non voleva colpire c’era Trump e i vertici del Pentagono (che è senza un segretario di fatto ed è in fase di transizione tra due facenti funzione): i militari temono un’escalation incontrollabile se dovessero essere colpiti obiettivi in Iran. Il presidente è a un anno dalle elezioni di riconferma e sa che ai suoi elettori e ai suoi finanziatori sarebbe complicato giustificare come America First un attacco contro l’Iran. In mezzo, per così dire, il Congresso: a quanto sembra i leader di Democratici e Repubblicani avrebbero chiesto al presidente di partecipare alle decisioni, ossia di approvare in aula eventuali operazioni militari contro Teheran che comunque dovevano essere “misurate” (secondo una dichiarazione fatta dai congressisti repubblicani). Che Trump fosse tutto fuorché convinto di scatenare una guerra è chiaro da settimane: lo ha più volte dichiarato apertamente, ma l’abbattimento del velivolo poteva essere un gamechanger. Eppure, già nelle dichiarazioni di ieri pomeriggio, nonostante un tweet molto duro, aveva detto ai giornalisti presenti durante la photo opportunity col presidente canadese, Justin Trudeau (la cui visita alla Casa Bianca, programmata da un po’, non era stata cancellata nonostante la fase di emergenza), di non credere che l’abbattimento fosse volontario, e che probabilmente era stato ordinato da un generale uscito fuori controllo. Sembrava una via di uscita offerta all’Iran, che Trump pressa perché intende riportarlo a un tavolo delle trattative, nonostante l’americano abbia tirato fuori gli Usa dall’accordo sul nucleare del 2015 e fatto di tutto per minare l’impalcatura dell’intesa (che Trump contesta anche perché è considerata l’eredità che l’odiata amministrazione democratica precedente ha lasciato nel campo della politica internazionale).
LA POSIZIONE DI TEHERAN
Una posizione che non trovava riscontri però a Teheran. Il generale a capo dei Pasdaran ha rivendicato l’abbattimento come un atto dovuto alla violazione dello spazio aereo iraniano, un’affermazione di sovranità intenzionale fatta arrivare fino al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con una lettera di protesta per lo sconfinamento americano e giustificazione per l’accaduto. Il tema geografico è un argomento: gli americani sostengono che il velivolo si trovasse in acque internazionali sopra allo Stretto di Hormuz — checkpoint nevralgico nel Golfo, su cui gli iraniani hanno minacciato un blocco navale settimane fa, quando gli Usa hanno eliminato il meccanismo di esenzione sanzionatoria da alcuni paesi a cui era consentito l’import petrolifero dall’Iran. Per il Pentagono la contraerea iraniana ha sparato un missile in una fascia attraversata addirittura da aerei civili (anche per questo, e per l’attacco poi annullato) i voli sono stati sospesi. Un’azione pericolosissima e non provocata dicono gli americani con tanto di mappature, mentre gli iraniani diffondono le loro prove sulla violazione con coordinate Gps della rotta del velivolo. I primi hanno a sostegno la logica degli esperti: perché far entrare un elefante come il BAMS-D abbattuto — un drone con quaranta metri di apertura alare, non stealth, lento da manovrare e nemmeno ultra tecnologico — nello spazio aereo iraniano a una quota facilmente intercettabile quando i suoi sensori ottici possono raccogliere informazioni in raggi ampissimi e da altitudini doppie a quelle in cui sarebbe stato colpito?