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Ho bloccato il raid per salvare 150 vite. Trump e la narrazione sul dietrofront con l’Iran

Il presidente statunitense, Donald Trump, ha parlato direttamente di quanto avvenuto ieri sera, quando ha prima approvato un attacco mirato contro alcuni bersagli iraniani e poi ha ordinato agli aerei già in volo per colpire di annullare la missione. L’azione sarebbe stata la rappresaglia per l’abbattimento di un velivolo senza pilota americano sopra i cieli iraniani – gli americani forniscono prove che si trovava in acque internazionali.

Erano previsti tre attacchi, ha spiegato Trump su Twitter, su tre “luoghi diversi” (uno di questi, probabilmente, la batteria mobile che ha tirato giù il drone). Il presidente, alla fine di una riunione nella Situation Room a cui aveva partecipato l’intera catena di comando e i vertici di amministrazione e Congresso, aveva accettato la linea dei suoi collaboratori che richiedevano l’attacco mirato, ma poi, mentre le missione era lanciata, dice di aver chiesto a uno dei generali presenti quale sarebbe stato il costo in termini di vite umane (iraniane) dei bombardamenti. “Centocinquanta persone, Signore” sarebbe stata la risposta del comandante, e davanti a quello, Trump racconta di aver fermato l’attacco “dieci minuti prima” che avvenisse, perché l’uccisione di 150 nemici “non era proporzionato all’abbattimento di un drone senza equipaggio”.

CONTRO-NARRAZONE TRUMPIANA

Il numero era certamente una stima realista data per eccesso, e si sa che gli Stati Uniti per limitare i danni in termini di vittime, avevano inviato un messaggio in anticipo a Teheran – tramite il canale di comunicazione omanita – sui luoghi degli airstrike. È possibile che Trump utilizzi la ricostruzione per non mostrarsi debole, incapace di compiere un attacco che si sarebbe portato dietro conseguenze, ma quello che esce dalla storia raccontata – per ora – della catena di eventi nella Situation Room parla di un presidente che ha scelto la freddezza piuttosto che l’aggressività. Attenzione, questo detto mentre circolano sui media americani (per esempio su Vox e sul Wall Street Journal) informazioni raccolte tra le fonti interne su piani di attacco pronti anche per stanotte, sebbene la precisazione delle gole profonde è “ma è improbabile” che si compia l’azione.

Quello di Trump è stato anche un colpo secco che disarticola l’impalcatura narrativa costruita in modo semplicistico attorno al presidente americano. Trump e la sua presidenza sono molto di più della macchietta che spesso viene descritta dopo le gaffe e le uscite fuori dal protocollo, gli scivoloni o gli spostamenti non coordinati da posizionamenti storici. I fatti dicono che Trump detesta l’idea di fare una guerra, e anche quando l’antiamericanismo popolare gridò contro l’imperialismo americano per i due attacchi punitivi contro “Animal Assad”, come Trump chiama il dittatore siriano, la punizione per aver gassato il popolo siriano furono due attacchi miratissimi e poco più che simbolici, nell’aprile del 2017 e per coincidenza un anno dopo esattamente.

IL PRAGMATISMO DEL DEALER

Trump non vuole fare guerre per una ragione diretta: sa che la sua nazione è stanca degli impegni militari all’estero, che hanno portato indietro pochi risultati palpabili tra la gente e molte bare avvolte dalla Stars & Stripes. Promette disimpegno (per esempio in Afghanistan o Siria), chiede maggiore coinvolgimento agli alleati sui dossier più caldi (per esempio in Siria), e intanto pensa alla prosperità interna (termine che usato per 32 volte nell’ultimo, suo primo, documento strategico per la sicurezza nazionale). Il benessere degli americani a suo modo di vedere si raggiunge anche con l’arrangiamento di contesti di stabilità all’estero, ma soprattutto riequilibrando quegli impegni di cui l’America s’è fatta carico in giro per il mondo e concentrandosi all’interno. È l’America First, per capirci.

A un anno dalle elezioni, per convincere gli elettori a confermarlo in carica, tutto gli servirebbe fuorché una guerra con l’Iran, lunga, complessa e dispendiosa. La scena di lui che blocca l’attacco aereo – scelta su cui per altro il Pentagono è l’apparato più allineato – pensando per altro al costo in termini di vite umane, è un’immagine forte da rivendere nei prossimi rally elettorali. Ed è anche una sorta di riqualificazione per il personaggio sulla scena globale, anche agli occhi dei leader del G20 che tra una settimana lo attendono a Osaka. Un conto è andarci con una mezza guerra aperta con l’Iran, un altro è arrivare da leader-dealer che, come ha detto, “non ha fretta” – ma intanto annuncia nuove sanzioni punitive.

INTANTO A TEHERAN

Con l’Iran ha un problema complicato da risolvere – anche perché è corresponsabile nell’averlo creato uscendo dall’accordo sul nucleare del 2015, mossa di cui però rivendica la scelta continuando a incolpare il suo predecessore democratico con un chiaro intento politico interno e su cui vorrebbe trovare una conclusione negoziando di nuovo con gli iraniani (perché vuole chiudere il suo primo mandato ottenendo una vittoria negoziale con un nemico, che sia l’Iran o la Corea del Nord, per dimostrare le sue capacità di trattativa). Non si possono escludere evoluzioni repentine, anche perché a Teheran la situazione è complessa, con un governo che sembra sempre più in difficoltà contro le posizioni reazionarie e ultra-aggressive dei Pasdaran. Il generale che comanda l’aviazione iraniana ha dichiarato che la controparte americana era stata avvisata più volte tramite i canali di comunicazione di sicurezza prima dell’abbattimento del drone, e che comunque la sua componente militare non avrebbe proceduto all’azione, mentre i Guardiani hanno voluto sparare subito. Il generale ha aggiunto anche che avrebbero potuto colpire un P8, un pattugliatore con equipaggiamento a bordo che volavano non lontano dal drone, ma hanno solo voluto mandare un messaggio senza fare troppi danni.



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