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Via dall’Afghanistan solo insieme agli alleati. La conferma del ministro Trenta

“Le trattative sono in corso e speriamo che si arrivi alla soluzione migliore. Certamente, così come siamo arrivati insieme, andremo via insieme”. Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha sintetizzato in questo modo lo stato dell’arte in Afghanistan, le trattative con i talebani e la necessità di un coordinamento tra tutti i Paesi della Nato impegnati nella missione Resolute support la cui conclusione, al momento, non è programmabile.

GLI ITALIANI RESTERANNO 800 FINO ALL’AUTUNNO

L’occasione per parlare di Afghanistan e della complessa situazione geopolitica asiatica, che comprende un crescente rischio terrorismo, è stata la presentazione del libro di Claudio Bertolotti “Afghanistan contemporaneo. Dentro la guerra più lunga” (editore Startinsight), moderata da Matteo Bressan. L’Afghanistan per l’Italia significa anche 54 militari morti (l’ha ricordato l’onorevole Luigi Iovino, M5s) e significa sforzi pluriennali per aiutare quel territorio a migliorarsi: il ministro Trenta ha citato i 1.288 progetti realizzati dall’allora Prt italiano (Provincial reconstruction team) e oggi seguiti dalla cellula della cooperazione civile e militare Cimic nel contingente a Herat. Iniziative estemporanee, come quelle annunciate da Donald Trump su possibili ritiri, secondo il ministro metterebbero a rischio alcuni faticosi risultati come i diritti delle donne o l’aumento della scolarizzazione. Comunque gli attuali 800 militari italiani scenderanno a 700 solo dopo le elezioni presidenziali previste in settembre.

L’IMPORTANZA DEGLI INVESTIMENTI

Le negative esperienze dei britannici e dei sovietici, dall’Ottocento in poi, sono lì a confermare che una situazione del genere “non si risolve solo con l’occupazione militare”, ha ricordato il capogruppo del Pd nella commissione Difesa della Camera, Alberto Pagani, e dopo l’11 settembre si capì che non sarebbero bastati i raid mirati con i Predator. Di sicuro, i risultati sono proporzionati agli investimenti: secondo Alessandro Politi, direttore della Nato Defense College Foundation, la prova sta proprio nei minori investimenti pro capite fatti a Kabul rispetto a quanto è stato fatto in Kosovo con Kfor e preoccupano certe scelte dei talebani, come la chiusura di 42 cliniche gestite da un’organizzazione svedese nell’Afghanistan orientale. La sorte di Resolute support rientra anche in un ragionamento generale sulla Nato: secondo Politi certe indicazioni della presidenza americana non trovano riscontro nel Congresso e nei cittadini che secondo un sondaggio sono favorevoli all’Alleanza, così come è fuorviante il dibattito sul 2 per cento del Pil da destinare alla Difesa perché “l’Alleanza non è una questione contabile”.

IL 93 PER CENTO DELL’OPPIO MONDIALE

Alcuni dati forniti da Bertolotti, che è capo dei ricercatori del Centro militare di studi strategici (Cemiss), sono indicativi: con il calo dei militari dai 140mila del 2012 ai 22mila di oggi i talebani controllano il 40 per cento del territorio e il resto presenta diverse zone contese. Il 93 per cento delle sostanze oppiacee diffuse nel mondo è prodotto in Afghanistan e la tattica dei talebani, che pagano in anticipo, rende inutile la distruzione dei campi coltivati perché l’anno successivo i contadini sono costretti a raddoppiare la produzione. La contraddizione è che l’Afghanistan importa grano quando l’agricoltura potrebbe fiorire. Pessimista sul futuro, Bertolotti crede che alla fine si arriverà a un accordo molto migliore per i talebani di quanto potessero sperare 10 anni fa.

LE STRATEGIE CINESI

La Via della Seta cinese riguarda direttamente l’Afghanistan e, come dice Pagani, “se l’Occidente lascia il campo, sarà occupato da qualcun altro”. La Bri (Belt and Road Initiative) “è un progetto alternativo di stabilità” di quell’area, anche perché l’Afghanistan è totalmente privo di infrastrutture visto che gli americani non dettero seguito al progetto del generale David Petraeus, e anzi secondo Politi realizza una “connettività globale che modificherà lentamente gli scenari politici”

L’INCUBO TERRORISMO

Parlare di Afghanistan significa parlare di terrorismo e non lo si può considerare separatamente dalla riorganizzazione dell’Isis dopo la sconfitta militare in Siria e Iraq. Andrea Manciulli, presidente di Europa Atlantica, batte da tempo sul tasto delle criticità dell’espansione del jihadismo in Asia e del pericolo che deriva da alcune ex repubbliche sovietiche. “Un gran numero di foreign fighter si è diretto in Afghanistan passando per l’Iran – ha detto Manciulli – ed è inoltre significativa la minoranza azara addestrata dalle Guardie rivoluzionarie di Teheran anch’essa andata in Afghanistan con il rischio di un ulteriore conflitto sunniti-sciiti”. Insomma, con altri combattenti che si muovono dalla Siria verso il Sahel, con al Qaeda che riprende vigore e le cui nuove generazioni stanno usando le tecnologie come l’Isis, con i numerosi viaggi di Hamza bin Laden, figlio di Osama, tra la Siria e l’Afghanistan, con la crescita esponenziale del jihadismo nel quadrante Afpak e in tante aree asiatiche, Manciulli è convinto che si possa “uscire dall’Afghanistan solo in accordo con gli afghani, consci dei rischi che ne deriverebbero perché non bisogna dimenticare il programma di Osama sulla proliferazione dei fronti”.

Il punto è sempre lo stesso: la prevenzione. L’uso del web da parte dell’Isis, oggi imitato da al Qaeda, sta manipolando una generazione di giovani simpatizzanti sulla quale si può intervenire solo in anticipo. Manciulli ha ricordato la legge sulla deradicalizzazione che preparò con Stefano Dambruoso nella scorsa legislatura auspicando che almeno il tema, se non quel testo, sia ripreso da questo Parlamento.

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