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Fca nel mirino dell’Antitrust. Ma è anche colpa dell’Europa

Se negli ultimi anni qualcuno aveva dei dubbi sulle difficoltà dei rapporti tra Italia ed Fca, oggi il campo è stato sgombrato da ogni dubbio. Alla sua prima relazione annuale (qui il testo integrale) da presidente dell’Antitrust, Roberto Rustichelli, successore di Giovanni Pitruzzella, ha attaccato frontalmente la casa automobilistica nata a Torino 120 anni fa ma il cui baricentro è, oggi, quasi totalmente estero. L’occasione è arrivata con il tradizionale appuntamento con la comunità politica ed economica, riunitasi alla Camera questa mattina.

ATTACCO A FCA

Ora, che il costruttore per lungo tempo sotto la guida di Sergio Marchionne, avesse intrapreso un processo di internazionalizzazione culminato con il trasferimento della sede fiscale a Londra (anno 2014), non è un mistero.  Trasferimento deciso dallo stesso Marchionne, quando vide la luce il nuovo gruppo Fiat-Chrysler, o meglio Fca, nel gennaio del 2014, per un semplice motivo: Londra è decisamente più vantaggiosa rispetto all’Italia in termini di tasse e in particolare quelle su dividendi, interessi e royalties. Nel nostro Paese, comunque, si continuano a pagare le tasse legate ai siti produttivi.

Il fatto è però che l’operazione ha avuto un costo per l’Italia, privata di uno dei suoi maggiori e storici contribuenti. “Il recente trasferimento della sede fiscale di Fca a Londra e della sede legale e fiscale in Olanda delle sue società controllate ha provocato un rilevante danno economico per le entrate dello Stato” ha puntato il dito Rustichelli. Di qui una lode a chi invece decide di continuare a pagare le tasse in Italia: quella cioè  proprietà delle grandi imprese italiane che mantiene comportamenti fiscali lodevolmente etici nei confronti del nostro Paese pur subendo un grave svantaggio competitivo”.

PAESE CHE VAI FISCO CHE TROVI

Non è che Fca sia l’unico gruppo industriale ad aver deciso di trasferire la propria sede in altri Paesi con un fisco più agevole. Per stessa ammissione dell’Antitrust, “i gruppi multinazionali reagiscono alla concorrenza fiscale localizzando le loro imprese più profittevoli proprio nei Paesi europei con una tassazione più favorevole“. Ma tutto questo ha un prezzo. “Se alcuni Paesi ci guadagnano, è l’Unione europea a perderci perché tutto questo non solo drena risorse dalle economie in cui il valore è effettivamente prodotto, ma riduce nel complesso la capacità della collettività di raccogliere risorse, in tal modo impedendo una più equa tassazione dei profitti delle imprese”.

IL COSTO PER L’ITALIA

Rustichelli ha insistito su un punto: in Europa non c’è un fisco omogeneo e questo per il nostro Paese è un problema in termini di mancate entrate. “La concorrenza fiscale all’interno dell’Unione europea mina la fiducia nel mercato unico e penalizza in particolare l’Italia con un danno annuo stimato fino a 8 miliardi. La concorrenza fiscale genera esternalità negative che costano a livello globale 500 miliardi di dollari l’anno, con un danno stimato per l’Italia tra i 5 e gli 8 miliardi di dollari l’anno. Una concorrenza fiscale di cui, di fatti, beneficiano le più astute multinazionali pone le imprese italiane, soprattutto quelle piccole e medie, ma anche le grandi società la cui proprietà mantiene comportamenti fiscali lodevolmente etici nei confronti dei nostro Paese, in una situazione di grave disagio competitivo”.

I RISULTATI NEL 2018

Per quanto riguarda l’attività svolta dall’Autorità da gennaio 2018 a giugno 2019, sono state comminate sanzioni per un ammontare superiore a 1 miliardo e 277 milioni di euro, di cui oltre 1 miliardo e 192 milioni di euro in sede di enforcement antitrust ed oltre 85 milioni di euro in materia di tutela del consumatore. “Per quanto concerne la tutela della concorrenza, sono stati chiusi 13 procedimenti per intese, 11 procedimenti per abuso di posizione dominante e 5 procedimenti per concentrazioni”.

 

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