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La via jacksoniana di Trump spiegata da Germano Dottori

Dal concetto Leading from behind, ovvero il controllo delle aree di crisi e delle zone di maggior interesse da “remoto”, all’enfasi nei confronti della dimensione cibernetica e dello spazio, passando per il pesantissimo Dossier cinese, le scelte di Donald Trump rappresentano per alcuni un cambio di strategia a 360 gradi. A margine della presentazione del volume “La visione di Trump” del prof. Germano Dottori, l’esperto ha discusso con Formiche i punti principali della politica internazionale americana nell’era Trump

Professor Dottori. Si è detto oggi, durante la presentazione, che il libro che approfondisce la strategia di Donald Trump è un libro di mare. Che valore ha il concetto di Rimland per gli Stati Uniti al giorno d’oggi, e come è cambiato con Donald Trump?

Piero Schiavazzi, che ha moderato il dibattito di oggi, ama molto le metafore. Il senso del suo richiamo alla marittimità del volume concerne la mia scelta di raccordare alcuni tratti della visione di Trump alle correnti più profonde della politica estera americana degli ultimi trenta anni. Il rimland, espressione con la quale la geopolitica classica indicava i bordi del macro-continente eurasiatico, era secondo Spykman l’area di massima turbolenza mondiale. La zona da mettere sotto controllo, per evitare lo scoppio di nuove guerre di grandi proporzioni, magari con una grande alleanza russo-americana che perpetuasse quella della Seconda Guerra Mondiale. Questa idea si sta probabilmente riaffacciando con Trump, per il quale un accordo con Mosca potrebbe contribuire a scongiurare il formarsi di un blocco eurasiatico “antagonista” esteso da Pechino a Berlino. È evidente che Trump si muove in una logica improntata al realismo politico che concede ben poco ai temi prediletti dagli idealisti wilsoniani. Non è vero che ami i dittatori, piuttosto rispetta maggiormente la sovranità nazionale dei suoi interlocutori e cerca risultati immediati.

Putin è atterrato a Roma proprio nelle ultime ore. Che ruolo ha, nella volontà di distensione che lei osserva tra il leader americano e quello russo, il nostro Paese?

L’Italia ambisce da sempre a svolgere un ruolo di facilitazione del dialogo tra paesi che si percepiscono come avversari o hanno difficoltà di rapporto. Questa tradizione persiste anche ai nostri giorni. Ma è chiaro che non può essere il nostro Paese a svolgere un ruolo di primo piano nel processo che potrebbe portare alla riconciliazione tra Stati Uniti e Russia. I protagonisti sono a Washington e Mosca. Noi, solo spettatori, seppur interessati.

Quali e quanti ostacoli sta ricevendo Trump nel suo disegno di riavvicinamento con Mosca in ottica anti-cinese? Come spiega questa posizione così reticente da parte della “vecchia” politica americana?

Trump aderisce ad una corrente politica assolutamente minoritaria nell’establishment americano, ma molto persistente e solida nella società – quella jacksoniana – che ha portato nella stanza dei bottoni le ragioni del cittadino medio statunitense. I jacksoniani sono nazionalisti e realisti. Vogliono una politica estera forte, ma non aggressiva. Non sono interessati alla redenzione democratica del mondo, ma a sostenere lo sviluppo in sicurezza dell’economia americana. Trump articola questo orientamento con scelte che tendono ad alleggerire l’impronta degli Stati Uniti in vaste aree del pianeta. Quelle zone nelle quali gli americani che lo hanno votato non comprendono più perché debbano stazionare o combattere dei soldati statunitensi. Non è un’abdicazione alla supremazia globale, ma un cambio di postura. Molti non ne comprendono la logica. Altri l’avversano, perché implica da parte americana maggiore self restraint ed una riduzione del potere esercitato localmente dai diplomatici e militari statunitensi. Ma Trump non è Carter, nessuno si confonda. Mentre cerca il disimpegno militare dal Medio e dall’Estremo Oriente, il tycoon aumenta le spese per la difesa ed investe nella militarizzazione dello spazio. Si passa al controllo “da remoto”, da attuare dallo spazio, dal continente americano e dal mare. Specialmente nei confronti della Cina.

Domani ci sarà il Consiglio Nato Russia. Secondo lei c’è ancora margine di risolvere la disputa sul trattato Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty)?

Ormai Stati Uniti e Russia hanno deciso di lasciarselo alle spalle, sembra evidente. Non è detto però che la morte del trattato Inf implichi per forza una nuova corsa al riarmo missilistico. Forse, lo si può evitare. A quanto si sa, anche se non viene eccessivamente pubblicizzato, gli americani non hanno in programma di schierare nuovi euromissili nel nostro Continente, almeno per adesso, e forse puntano ad un negoziato più ampio, che coinvolga anche la Cina. Un fattore d’incertezza è però rappresentato dalla pluralità degli orientamenti rappresentati all’interno dell’attuale amministrazione americana. Trump pensa probabilmente ad un grande accordo globale con la Russia; alcuni suoi collaboratori di convinzioni neoconservatrici, invece, vogliono semplicemente disfarsi degli accordi sul controllo degli armamenti che hanno vincolato gli americani negli ultimi decenni.

La strategia di Trump con l’Iran è caratterizzata da una posizione molto dura, sia per quanto concerne il Nucleare, sia l’espansione egemonica dei proxy iraniani verso la Siria e l’Iraq. Tuttavia Trump, spiega lei nel libro, cerca di dialogare con i propri interlocutori e di formalizzare accordi convenienti. Quale è, dunque, il grande disegno di Donald Trump in Medio Oriente e come farà a mitigare le possibilità di escalation con Teheran?

Io sono persuaso che a Trump non interessi rovesciare il regime iraniano, impresa complessa e dagli esiti incerti, ma piuttosto modificare il comportamento internazionale della Repubblica Islamica in una direzione che favorisca la stabilità complessiva. Vuole quindi trattare, non fare la guerra, esattamente come desidera farlo con la Corea del Nord, mettendo sul piatto concessioni sostanziali, anche sul piano del riconoscimento politico delle autorità di Teheran da parte americana. A Trump interessa soprattutto convincere l’Iran a rinunciare alle proprie ambizioni nucleari e ai missili balistici a più lunga gittata, che in prospettiva potrebbero raggiungere l’Europa. Richiamo l’attenzione soprattutto su questo specifico obiettivo, in genere poco menzionato: perché quei missili a lunga gittata di Teheran sono il presupposto sulla base del quale si è deciso di erigere nel nostro Continente quelle difese antimissilistiche che Mosca tanto avversa, ritenendole lesive degli equilibri strategici e della sua capacità di dissuasione. Non escludo quindi che la politica mediorientale di Trump sia una derivata del suo approccio alla Russia. In fondo, è accaduta la stessa cosa anche sotto Obama, seppure nella direzione opposta. Obama perseguì la riconciliazione con l’Iran anche con l’idea che il gas persiano potesse fare concorrenza a quello russo, indebolendo Mosca. Stavolta, invece, il proposito è quello di creare delle condizioni che facilitino l’intesa tra Stati Uniti e Russia. Non è detto che Trump ci riesca, naturalmente, dal momento che le variabili in gioco sono tante e tutte poco controllabili. Ma capire cosa davvero voglia Trump sarebbe importante per tutti. Io propongo una chiave di lettura.

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