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Vi racconto la strategia cinese nel Golfo. Parla Scita (Durham)

Uno degli attori coinvolti nel dossier iraniano è la Cina, cofirmataria nel 2015 dell’accordo sul nucleare e acquirente del petrolio della Repubblica islamica. Per approfondire il ruolo di Pechino all’interno della questione, che ha risvolti più ampi degli equilibri regionali, Formiche.net ha parlato con Jacopo Scita, Al-Sabah doctoral fellow all’università inglese di Durham ed esperto nelle relazioni Cina-Iran.

Mentre l’intensità della crisi nel Golfo non sembra calare, che ruolo sta avendo la Cina, cofirmataria del JCPoA e dunque parte in causa nella crisi di fondo con Tehran?

Il ruolo della Cina è, come sempre, abbastanza attendista. Il presupposto fondamentale da cui partire è quello per cui la presenza di Pechino nel Golfo è costruita attorno a tre comprehensive strategic partnership (il più alto livello di partnership nella dottrina cinese): Arabia Saudita, Emirati Arabi e Iran. È evidente che questa architettura strategica si basa necessariamente sul mantenimento di una certa equidistanza e riluttanza a schierarsi con un lato piuttosto che con l’altro. Le dichiarazioni ufficiali che arrivano da Pechino vanno sempre nella direzione di chiedere a tutti gli attori del Golfo maggior autocontrollo, di agire con razionalità e di valutare attentamente gli enormi rischi di una escalation fuori controllo.

C’è una ricerca di equilibrio anche legata a interessi, il petrolio per esempio, oppure questioni altrettanti strutturali come la Bri?

Le conseguenze di un conflitto aperto nel Golfo, che un portavoce del ministero degli esteri cinese ha efficacemente indicato come l’apertura del Vaso di Pandora, sono l’aspetto che preoccupa maggiormente Pechino. La Cina, infatti, è il maggior cliente degli idrocarburi che transitano attraverso lo stretto di Hormuz e qualunque interruzione, anche parziale, del traffico creerebbe una falla nel sistema di approvvigionamento energetico di Pechino difficilmente gestibile (e.g. il petrolio proveniente dal Golfo conta oltre il 40% del fabbisogno giornaliero cinese). A questo aspetto fondamentale si aggiunge, oltre agli effetti distruttivi che un conflitto di larga scala potrebbe avere sulla ramificazione mediorientale della Belt and Road Initiative, un problema politico. Come detto, la strategia cinese nel Golfo si è basata sul mantenimento di una certa equidistanza e neutralità rispetto allo storico conflitto Iran-Arabia Saudita. Al contrario, uno scenario di guerra aperta nel Golfo costringerebbe Pechino ad adottare posizioni più chiare e, presumibilmente, schierate nella necessità di difendere i propri interessi energetici. Un puzzle complesso che la Cina non sembra totalmente pronta e ancor meno desiderosa di risolvere.

Pechino ha strumenti o interessi nel costruire un sistema per preservare il business con l’Iran dalla panoplia sanzionatoria americana, magari in partnership con Ue e Russia?

In linea generale, Pechino ha certamente sia gli strumenti che gli interessi per contrastare il regime di sanzioni imposto dagli Stati Uniti sull’Iran. Quello che fino a ora è mancato – e probabilmente lo stesso si può dire per l’Ue e la Russia – è la volontà politica. Se da un lato è chiaro che l’Iran non è il centro delle tensioni tra Washington e Pechino, dall’altro è evidente che le due potenze stanno attraversando una fase di confronto particolarmente complessa e pericolosa. Cercando di mantenere una visione globale, è evidente che i calcoli politici e strategici fatti oggi a Pechino hanno la Trade War con gli Stati Uniti come obbiettivo principale. Dossier controversi come quello iraniano soffrono, inevitabilmente, le ripercussioni del confronto tra grandi potenze.

Ma la Cina ha una relazione commerciale con l’Iran, e forse anche per questo Teheran si aspetta, aspettava, aspetterebbe, più impegno da parte di Pechino nel preservare l’accordo e la sua impalcatura?

Se consideriamo che durante il precedente regime sanzionatorio, quello a guida Onu che ha preceduto il Jcpoa, la Cina è sostanzialmente stata l’unico partner commerciale di Teheran, appare chiara la sottaciuta delusione iraniana davanti allo scarso impegno cinese nel contrastare la massima pressione dell’amministrazione Trump. È interessante notare, poi, come il vero l’elefante nella stanza dopo l’introduzione delle sanzioni statunitensi sia stata l’assenza di coordinazione tra i firmatari del JcpoA. Il gruppo E3/Eu ha faticosamente lanciato Instex, il veicolo di pagamento speciale che dovrebbe rendere più semplici alcune transazioni con l’Iran, senza che ciò fosse il risultato di un progetto condiviso con Cina e Russia (queste ultime hanno però espresso interesse in Instex). È chiaro che un dossier complesso e a tratti controverso come quello iraniano non favorisca la cooperazione tra attori che, in contesti diversi ma preponderati, si trovano in contrasto politico ed economico (esempio, il caso 5G tra Cina e Ue).

Tornando indietro a un punto interessante, da approfondire: c’è una dimensione-Iran nel confronto USA-Cina o il dossier è esterno?

Come già accennato il dossier Iran si inserisce in modo abbastanza chiaro nel confronto Usa-Cina, diventando, soprattutto dalla parte di Pechino, una pedina interessante. L’assunto da cui partire è quello che per cui qualunque relazione tra un attore extra-regionale e l’Iran attira automaticamente l’attenzione degli Stati Uniti. Nel triangolo Usa-Cina-Iran, Tehran rappresenta senza tema di smentita il vertice debole e di conseguenza quello maggiormente esposto al confronto tra i vertici forti. La Trade War ha portato il livello di tensione tra Pechino e Washington a livelli sostanzialmente inediti e questa condizione sta influenzando i rapporti tra Cina e Iran.

Ma Pechino quanto è disposto a investire nel rapporto iraniano rispetto alle relazioni con Washington?

L’evidenza storica e razionale ci dicono che Pechino non sacrificherà mai le proprie relazioni con Washington per salvaguardare quelle con Tehran. Tuttavia, l’Iran può facilmente diventare una pedina politica nelle mani cinesi per, a seconda dei casi, provocare, lanciare messaggi, o decomprimere il confronto con gli Stati Uniti. Un buon esempio viene dal mancato rispetto di Pechino del blocco all’export di petrolio iraniano. A partire da giugno, infatti, alcune petroliere cariche di petrolio di Tehran hanno raggiunto i terminal cinesi. Le quantità sono risibili e non paragonabili alle quote di importazione pre-sanzioni; ma è proprio questo aspetto a porre in evidenza la natura politica della scelta di Pechino. In sostanza possiamo dire che l’Iran è indirettamente al centro del confronto tra Usa-Cina ma che, almeno allo stato attuale, questo non garantisce particolari vantaggi a Tehran. Anzi.

(Foto: Wikipedia, un incontro tra Xi Jinping è la Guida Khamenei)



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