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No tech business con la Cina. Perché Trump scudiscia anche Apple e Google

Nello scontro commerciale tra Washington e Pechino, la Casa Bianca chiama in causa i colossi tecnologici, spingendoli a fare una ‘scelta di campo’.
Mentre è fresco l’annuncio di una indagine antitrust nei confronti dei giganti del Web Usa, due nuovi fendenti del presidente Donald Trump, giunti come spesso accade via Twitter, sono stati rivolti oggi a due delle compagnie americane del settore più rappresentative e importanti, Apple e Google.

LO SCONTRO CON APPLE

“Apple”, ha cinguettato il capo di Stato, “non riceverà alcuno scontro o sgravio per le parti del Mac Pro fabbricate in Cina. Fatele negli Usa!”, ha ammonito. Un riferimento al fatto che, recentemente, la società di Cupertino ha spostato la produzione dei suoi Mac Pro (l’unico tra i suoi principali dispositivi fatti in patria) dagli Stati Uniti alla Cina. Per fabbricare il nuovo terminale della linea, la cui uscita è prevista a ottobre, la compagnia guidata da Tim Cook ha messo sotto contratto Quanta Computer per la produzione del Mac Pro.
Un portavoce di Apple ha specificato che alcune componenti sono prodotte anche negli States e che “l’assemblaggio finale è solo una parte del processo di produzione”.
Ma ciò difficilmente servirà a far cambiare idea a Trump, che tenta da tempo, nell’ambito di un lungo e tortuoso negoziato commerciale, di riequilibrare gli scambi con Pechino e di riportare nel Paese molte delle produzioni fatte oggi in nazioni dove la manodopera ha un costo inferiore a quella americana.

LA STRATEGIA DI TRUMP

Nell’idea di Trump, aveva spiegato a Formiche.net Alberto Forchielli, managing partner del fondo di private equity sino-europeo Mandarin Capital Partners, c’è l’intenzione di non incidere solo sulla tecnologia. “Per spiegare cosa è accaduto in questi ultimi 20 anni utilizzo una metafora ciclistica. Da tempo gli Stati Uniti tirano alla Cina la volata. Pechino ne ha approfittato, senza mai dare il cambio, godendo di tutti i vantaggi della scia ma senza mai pedalare faticando davvero. Ora Washington si è stancata e prende i giusti provvedimenti, che non riguardano solo le aziende”, aveva detto, riferendosi non solo alla ‘responsabilizzazione’ delle aziende Usa, ma anche alla politica dei dazi e delle restrizioni a carico di imprese cinesi come Huawei.
Gli Stati Uniti, aveva aggiunto Forchielli, stanno mettendo in atto “una strategia complessa e composita. Stanno agendo su sei leve che sono: gli investimenti con nuove regole per il Cfius, il Comitato di controllo sugli investimenti esteri negli Stati Uniti; il commercio con le tariffe; la tecnologia con limitazioni di import e export; i dati, con limitazioni ancora più stringenti sugli investimenti in obiettivi ad alta intensità di dati; le persone, con una stretta sui visti per gli studenti cinesi, che accorrono in massa nelle università americane per poi tornare nella madrepatria con un bagaglio, anche di know-how, non indifferente, del quale beneficia il Paese; e i centri culturali come gli Istituti Confucio”. Di questo piano la parte commerciale è solo un tassello.

IL CAPITOLO GOOGLE

Un’altro è quello della sicurezza (nell’ambito del quale Washington ha già fermato diverse acquisizioni cinesi negli Usa, incoraggiato le università americane a tagliare i ponti con quelle della Repubblica Popolare, escluso compagnie tech di Pechino da infrastrutture governative e, ultimamente, inserito Huawei in una lista nera del Dipartimento del Commercio Usa di aziende considerate un rischio per la sicurezza nazionale americana; una scelta che impedisce alle aziende Usa di vendere alla compagnia di Shenzhen e a sue affiliate qualsiasi componente in assenza di specifica autorizzazione). Ed è su questo potenziale terreno che viene invece trascinata Google con la quale, tuttavia, la Casa Bianca ha adottato un atteggiamento più prudente.

La scorsa settimana, Trump aveva promesso di “dare un’occhiata” al caso Google, dopo che il magnate repubblicano Peter Thiel aveva sostenuto, senza dare ulteriori dettagli, che la società tech dovrebbe essere indagata per tradimento. Secondo il miliardario amico di Trump, l’Fbi e la Cia dovrebbero indagare per verificare se in Google (che ha naturalmente respinto l’accusa al mittente) si siano “infiltrate” spie cinesi.

Oggi il capo di Stato americano è tornato sulla vicenda, spiegando che “potrebbe esserci o non esserci un problema di sicurezza nazionale riguardo a Google e ai suoi rapporti con la Cina”. E che “se c’è un problema, lo troveremo. Sinceramente spero che non ci sia!”.
Parole che potrebbero sembrare ‘minacciose’, ma che sono da ridimensionare se vengono accompagnate a quanto detto giorni fa dal segretario al Tesoro americano, Steven Mnuchin, che aveva spiegato di aver approfondito la questione con Trump non rilevando alcun motivo di preoccupazione per la sicurezza nazionale negli affari di Mountain View nella Repubblica Popolare, definiti “molto, molto marginali” (cosa che non accadde ad esempio con Microsoft, quando il Financial Times accese i riflettori su alcuni progetti condotti dal colosso di Redmond con un’ateneo militare cinese).



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