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Corea del Sud tra due fuochi. Le possibili conseguenze della crisi dei dazi

Di Antonio Fiori

Spesso, quando si vuole fornire una descrizione del posizionamento della Corea in politica estera, si ricorre al detto “in una lotta tra balene il gamberetto soccombe”. Se, infatti, il relativo isolamento geografico della penisola ha talvolta offerto protezione alle sue genti, spesso, nel corso dei secoli, la Corea si è trovata, suo malgrado, coinvolta in una tumultuosa contesa tra potenze, che ha costantemente provocato massicce devastazioni. Nel XVI secolo, la determinazione giapponese nel sostituirsi, in qualità di egemone regionale, alla Cina dei Ming condusse alla Guerra del fiume Imjin, che ebbe la Corea come teatro di scontro; nel secolo successivo fu la volta dei Manchu, i quali, volendo sovvertire il dominio dei Ming, trascinarono la Corea in un sanguinoso conflitto. Se, nel XIX secolo, la Corea si trovò investita dal conflitto sino-giapponese, in quello successivo essa fu al centro degli appetiti di russi e giapponesi, finendo per essere assoggettata alla brutale colonizzazione imposta da questi ultimi. Alla fine della seconda guerra mondiale, proprio quando la liberazione dal giogo coloniale sembrava poter finalmente segnare l’inizio di un periodo di tranquillità e indipendenza, la penisola dovette subire la divisione imposta dalla contrapposizione dei due blocchi emersi dalla Guerra fredda, che sfociò nella sanguinosa Guerra di Corea (1950-53).

Il destino della Corea sembra non essere cambiato nel corso di questo secolo, dato che il paese appare stretto in una morsa tra il suo storico alleato, gli Stati Uniti, e la potenza in ascesa, la Repubblica Popolare Cinese che, dopo aver riaperto i canali diplomatici formali con Seoul nel 1992, ha finito per diventarne il principale partner economico. Anche il rapporto con gli Stati Uniti si è però evoluto, andando oltre i meri dettami in ambito di sicurezza: allo stato attuale, per esempio, l’interazione commerciale tra Seoul e Washington è superiore ai 70 miliardi di dollari. Le crescenti tensioni tra gli Stati Uniti e la Cina, tuttavia, rischiano di rimettere la Corea del Sud al centro di un pericoloso fuoco incrociato, manifestatosi già in diverse occasioni, come nell’estate del 2015, allorché in Corea si inizio a discutere dell’eventualità di unirsi alla Banca Infrastrutturale Asiatica – creazione cinese alla quale gli Stati Uniti si erano fortemente opposti – e soprattutto nell’estate successiva, a causa dell’annosa disputa sul dislocamento sul suolo coreano del sistema antimissile THAAD.

LA CONTROVERSIA CON PECHINO SUL SISTEMA ANTIMISSILE

Immediatamente dopo essere stato eletto presidente, nel maggio del 2017, Moon Jae-in dovette confrontarsi con una delle questioni più spinose lasciategli in eredità dal suo predecessore, Park Geun-hye, la quale, successivamente al quinto test nucleare nordcoreano, avvenuto nel gennaio del 2016, aveva deciso di dotare il proprio paese del THAAD (Terminal High Altitude Area Defense), che sarebbe stato fornito dagli americani. L’emersione della corrotta gestione del potere da parte della presidentessa Park, che condusse all’impeachment e al successivo arresto, aveva messo in dubbio la necessità di dare seguito alla fornitura del THAAD, di cui Moon Jae-in – allora candidato progressista alle presidenziali – non era interamente convinto, soprattutto a causa del forte malcontento cinese. La decisione, tuttavia, non poté essere sovvertita ed il THAAD, posizionato nella zona di Seongju, tra le vibranti proteste della popolazione locale, fu reso attivo. La disputa sul THAAD si riverberava su una moltitudine di questioni di primaria importanza, concernenti l’assetto politico interno della Corea del Sud, il futuro delle relazioni tra Seoul e Pechino, e l’efficacia della deterrenza nei confronti di Pyongyang. Nella prospettiva di politica estera, l’amministrazione Moon era obbligata a bilanciare la sua rilevante alleanza con gli Stati Uniti con la nuova posizione assunta nei confronti della Corea del Nord e i legami crescentemente importanti con Pechino. Quest’ultima fu particolarmente irritata dalla decisione sudcoreana di accettare il posizionamento del THAAD, sostenendo come esso avrebbe potenzialmente reso più difficile la sua capacità di reazione e, soprattutto, avrebbe “allungato gli occhi” all’interno del territorio cinese, grazie al potente radar di cui il sistema dispone. I media cinesi cominciarono a battere insistentemente sulle “conseguenze” che la Corea del Sud avrebbe subito a causa della decisione di accogliere il sistema antimissile, asserendo che ciò avrebbe potenzialmente comportato l’avvio di una corsa al riarmo nel continente asiatico con l’obiettivo di “contenere” la Cina. Pechino decise quindi subito di dare vita ad un’intensa pressione ai danni della Corea del Sud, rispondendo con l’adozione di una serie di misure sanzionatorie di tipo economico. La questione relativa al THAAD ha aperto un grande ed interessante interrogativo in relazione all’atteggiamento che Pechino potrebbe tenere nei confronti di Seoul. Se, infatti, la relazione tra Seoul e Pechino ha continuato a crescere ed a consolidarsi sia dal punto di vista economico sia da quello politico a seguito dell’apertura di canali diplomatici avvenuta nel 1992, ciò che è avvenuto dimostrerebbe come Pechino avanzi delle continue richieste di osservanza del principio di sovranità e di non interferenza a proprio vantaggio, ma adotti un comportamento completamente diverso nei riguardi delle potenze “più deboli”. L’interferenza cinese nei confronti della politica interna di Seoul, l’aperta pressione, il mancato rispetto di qualsivoglia protocollo diplomatico e, soprattutto, la totale indifferenza dell’indisputabile diritto di Seoul di accogliere qualunque dispositivo atto a difendere i propri confini nazionali potrebbe certamente riproporsi in futuro, considerata la necessità della Corea del Sud di procedere alla modernizzazione del suo apparato di difesa, congiuntamente o indipendentemente dagli Stati Uniti.

La controversia sul THAAD ebbe delle notevoli ripercussioni sull’economia sudcoreana – dato che il mercato cinese rappresentava circa un quarto delle esportazioni nazionali – e, più in generale, sulle relazioni tra Seoul e Pechino. Quando la rappresaglia nei confronti del gruppo Lotte – uno dei più importanti conglomerati industriali sudcoreani, resosi responsabile della cessione del terreno che avrebbe dovuto accogliere il THAAD – cominciò a svilupparsi, il costo che l’economia sudcoreana dovette sopportare fu altissimo, pari a circa 7,6 miliardi di dollari nel solo 2017. Il governo cinese, inoltre, adducendo una serie di violazioni relative alla sicurezza, decise di sospendere l’attività del gruppo Lotte, che fu costretto a mettere in vendita molti dei suoi punti vendita. In aggiunta, i programmi televisivi prodotti in Corea furono banditi e una forte stretta fu imposta anche sull’industria del turismo e su quella delle automobili. I cinesi, naturalmente, mascherarono tali misure sostenendo che si trattasse esclusivamente di scelte assunte liberamente dai consumatori.

L’INVERSIONE DI ROTTA DEI CINESI E I “3 NO” DI SEOUL

Alla fine di ottobre 2017, tuttavia, i cinesi modificarono il proprio atteggiamento, decidendo di seppellire l’ascia di guerra. Entrambi i paesi rilasciarono delle dichiarazioni in cui sostenevano di volersi lasciare l’accaduto alle spalle. Le ragioni di questo repentino cambiamento non sono mai state interamente chiarite e potrebbero, probabilmente, essere state originate dal convincimento da parte cinese che ormai nulla poteva essere più fatto per ostacolare il posizionamento del THAAD sul suolo coreano, decidendo, quindi, di assicurarsi qualunque concessione ancora possibile da parte sudcoreana. Seoul, da parte sua, fece delle concessioni sostanziali annunciando i cosiddetti “3 no”:

• nessuna aggiunta al sistema antimissile esistente;
• nessuna partecipazione sudcoreana a un sistema integrato di difesa coordinato dagli americani;
• e nessuna possibilità di dare vita ad una alleanza trilaterale con americani e giapponesi.
La Cina, tuttavia, non ha mai interamente rinunciato ad esercitare pressioni sulla Corea del Sud: durante i colloqui bilaterali tenutisi in occasione del vertice annuale dell’ASEAN nell’agosto del 2018, il ministro degli esteri cinese, Wang Yi, intimò alla sua controparte coreana, Kang Kyung-wha, di trovare una “soluzione completa” al problema del THAAD, indicando così che la Cina non stava abbandonando la presa su quella specifica questione. La rappresaglia cinese ha in qualche modo destato l’attenzione dei coreani, che ritenevano che le relazioni bilaterali avessero ormai raggiunto un punto di maturità dal 1992. Data l’asimmetria tra Cina e Corea del Sud, Pechino aveva probabilmente calcolato che Seoul avrebbe fatto delle concessioni a fronte di una pressione sempre più intensa. Ciò che però i cinesi non avevano preso in considerazione era la forte indignazione che i cittadini coreani hanno cominciato a provare nei loro confronti a seguito dell’accaduto: nonostante le crescenti tensioni di varia natura con Washington, molti hanno cominciato a ritenere di vitale importanza il rapporto con gli Stati Uniti proprio per arginare l’aggressività e la postura intimidatoria della Repubblica Popolare Cinese. Se, da una parte, il posizionamento del THAAD ha rappresentato una vittoria per Seoul e Washington nel breve termine, appare chiaro come sia Moon sia i suoi successori avranno il loro bel da fare per rimanere in equilibrio nel tiro alla fune tra Pechino e Washington.
La crescente minaccia nordcoreana e, più di recente, la preoccupante “ascesa” cinese hanno amplificato la necessità di rendere ancor più stringente il coordinamento su questioni di vitale importanza in seno all’alleanza tra Seoul e Washington. Ciononostante, mentre le leadership sudcoreana e statunitense discutono della possibilità di mettere formalmente fine alla Guerra di Corea attraverso la ratifica di un vero e proprio trattato di pace, molti, tra i sostenitori di Moon, hanno cominciato a chiedersi se ed in quale misura l’alleanza con gli Stati Uniti sarebbe ancora utile nell’eventualità di una penisola pacificata. Quella tra Corea e Stati Uniti è principalmente un’alleanza in ambito di sicurezza: la diminuzione delle criticità al punto di fluttuazioni geopolitiche senza precedenti porterebbe con sé il rischio di sbriciolare la stessa architettura che ha, negli ultimi sei decenni, contribuito a mantenere una condizione di pace, sicurezza e prosperità.

L’ALLEANZA ASIMMETRICA CON WASHINGTON

La coesione dell’alleanza in questa giuntura critica è di vitale importanza a causa dei presumibili cambiamenti politici che potrebbero avere luogo tra le due Coree e tra queste ultime e le grandi potenze. La natura asimmetrica dell’alleanza tra Seoul e Washington, del resto, ha prodotto un paradosso senza precedenti nella mente dei coreani, che si esplicita, da una parte, nell’insoddisfazione relativa allo squilibrio di potere ma, dall’altra, nell’accettazione della necessità strategica di tale rapporto in qualità di fondamento della propria sfera di difesa. Tale ambivalenza nei confronti dell’alleanza si rivela anche nel timore avvertito da Seoul nei confronti di un possibile “intrappolamento”: nell’eventualità di un conflitto tra Stati Uniti e Cina, o anche di un confronto su scala più bassa tra Cina e Giappone, i coreani non avrebbero alcuno spazio di manovra risultando, involontariamente, coinvolti. La pressione esercitata dalla Cina sulla Corea del Sud nella recente diatriba sul THAAD ha amplificato a dismisura il grande timore di coreani e cioè la necessità di controbilanciare Pechino tenendo al contempo salda la propria alleanza con gli Stati Uniti. Le risposte ad un recente sondaggio condotto dallo Asan Institute for Policy Studies, d’altronde, confermano l’importanza che l’alleanza con gli Stati Uniti ricopre nella percezione dell’opinione pubblica: alla domanda su quale paesi essi ritengano centrali per la sicurezza della Corea del Sud, più del 68 percento degli intervistati ha citato gli Stati Uniti e solo il 6 percento la Repubblica Popolare Cinese. Sebbene l’amministrazione Moon invochi una sostanziale autonomia decisionale a favore di Seoul in ambito di sicurezza e difesa, è evidente un forte consenso tra i suoi concittadini sulla necessità di preservare l’alleanza con gli Stati Uniti.

La Corea del Sud, del resto, potrebbe rimanere imprigionata anche nella recente “guerra commerciale” sviluppatasi tra Washington e Pechino. Seoul, diventata ormai la quarta potenza economica asiatica, è particolarmente vulnerabile ad un aspro conflitto sulle tariffe a causa dell’importanza del commercio estero, in modo particolare con i suoi due più importanti partner, Stati Uniti e Cina per l’appunto. L’escalation della crisi, che ha sconvolto i mercati minacciando pesantemente la crescita globale, arriva in un momento molto particolare per la Corea del Sud, la cui economia ha subito, forse in modo inatteso, delle pesanti contrazioni nei primi quattro mesi dell’anno. In qualità di principale produttore di microchip destinate ad essere montate su telefoni cellulari e computer, la Corea del Sud ha beneficiato per anni del rapido e continuo sviluppo di questo settore. La domanda globale di telefoni cellulari, però, è in ribasso e ciò, combinato con il rallentamento cinese e una crescita globale costantemente in ribasso, ha nuociuto pesantemente all’economia sudcoreana dipendente dalle esportazioni. La possibilità che ciò accadesse è sempre esistita, a causa della sua vicinanza geografica e commerciale. L’imposizione di nuove tariffe commerciali da parte degli Stati Uniti potrebbe determinare l’innalzamento dei prezzi di numerosi prodotti elettronici; se ciò accadesse, la Cina potrebbe decidere di contingentare l’invio di tali prodotti agli Stati Uniti, ma ciò determinerebbe anche, come conseguenza diretta, una contrazione nelle vendite di semiconduttori da parte della Corea del Sud. La reazione a catena potrebbe essere ferale per l’economia di Seoul, visto che il comparto dei semiconduttori si sviluppa proprio in funzione dell’esportazione verso la Cina. Secondo altri analisti, però, la situazione potrebbe anche non essere così negativa, dato che a quel punto la Corea del Sud potrebbe decidere di fornire i suoi prodotti direttamente agli Stati Uniti, dove essi sarebbero poi assemblati.

La guerra commerciale potrebbe anche avere un impatto di lunga durata sul settore manifatturiero asiatico, considerato che molte aziende potrebbero decidere di sradicare la propria produzione dalla Cina come mezzo per proteggersi dal “conflitto”. Molti produttori coreani hanno già assunto tale decisione, volgendo la loro attenzione a paesi economicamente più convenienti nel sudest asiatico. Ciò che rimane da vedere è quali contromisure la Cina deciderà di adottare e in quale misura esse si ritorceranno ancora contro Seoul.

(Leggi qui tutti gli articoli della rivista World Energy Magazine)

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