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L’alleanza con Assad mette a rischio la presenza cristiana anche in Libano

Accusato dal mondo intero di crimini contro l’umanità, morto dopo un’esplosione a Dar Ez-Zoor nel 2017, il generale Issam Zahreddine è considerato l’eroe del regime siriano. Proprio lui, il 5 settembre 2017, dopo essere stato ricevuto dal presidente che volle personalmente congratularsi con lui per la sua audacia sul campo di battaglia, usò la circostanza per dire ai siriani fuggiti all’estero: “Non tornate mai. Anche se lo Stato dovesse perdonarvi, noi non vi perdoneremo mai: non dimenticatelo”. I siriani sembra proprio che non lo abbiano dimenticato, a differenza del ministro degli Esteri libanese, genero del Presidente della Repubblica – l’ex generale Michel Aoun Gebran Bassil, l’uomo che per molti esprime la più grave deriva del cristianesimo mediorientale: il “rischio razzismo”.

LA SITUAZIONE IN LIBANO

Tutto comincia all’inizio di quest’anno, quando il capo della diplomazia libanese ha chiesto non ad Assad ma alla comunità internazionale di far tornare in patria i profughi siriani rifugiatisi in Libano. Poi è arrivato un tweet, strumento di esternazione favorito da molti nuovi leader, nel quale il capo della diplomazia libanese non ha esitato a dire che i libanesi non si lasceranno rimpiazzare da altri nel territorio che è loro. Se si considera che nel piccolo Libano, 4 milioni di abitanti, oggi vivono 1,5 milioni di siriani, si capirà facilmente il pericolo e la portata delle parole del ministro. Seguite da un altro tweet nel quale è arrivato a usare il termine “genetica” per spiegare la differenza tra i libanesi e altri popoli vicini. In definitiva la sua tesi sarebbe che i libanesi dopo la guerra civile si rimboccarono le maniche, non andarono profughi nei paesi vicini. Le dimensioni della diaspora libanese sembrano dire che forse sono andati in paesi lontani; Canada, Brasile, Stati Uniti e tanti altri ospitano milioni di libanesi, non sempre facoltosi. Ma il punto non è questo. Il punto è che la guerra civile libanese è finita con un trattato di pace tra le parti in conflitto, quello che in Siria non si vede: in Siria si persegue l’annientamento dei nemici del regime, con la morte o l’espulsione.

LA QUESTIONE DEI PROFUGHI

Se il punto politico dei tweet del potente capo della diplomazia libanese, definito da quasi tutti il più stretto alleato di Hezbollah, era chiaro, il punto sociale da cui nasce è duplice: il malessere libanese non deve riversarsi verso il regime di Damasco o peggio ancora contro Tehran, alleati e riferimenti regionali di Gebran Bassil. Il regime siriano non ha mai fatto mistero di considerare la rivolta siriana una rivolta degli strati umili della maggioranza sunnita, da sempre vessati dal regime degli Assad, che si è determinato nel 2012 a eliminare o espellere. Scelta che si combina con il progetto khomeinista di esportare la propria rivoluzione fino al Mediterraneo, controllando politicamente e socialmente i territori iracheno, siriano e libanese. Le milizie khomeiniste e regimi politici compiacenti determinerebbero il successo del “ritorno imperiale”. Sono questi i due fattori che rendono impossibile il rimpatrio dei profughi, ma siccome anche la Turchia ha chiuso le sue porte ai profughi siriani, ce ne sono altri tre milioni nella provincia di Idlib in attesa di fuggire dalle 400 bombe giornaliere che gli sganciano contro le aviazioni russa e siriana, è evidente che si deve cavalcare il malessere libanese nei confronti dell’enorme presenza di profughi usandolo contro le vittime della politica genocidiaria di Assad, che nel silenzio di quasi tutti ha distrutto interi catasti di città di milioni di abitanti proprio per impedire alla popolazione scacciata di tornare rivendicando le loro proprietà. È accaduto ad Homs e in molti altri casi. C’è poi la leva obbligatoria: l’esercito siriano ricorda ormai quello eritreo, si entra ragazzi e si esce all’età della pensione: si deve combattere, uccidere, adesso anche saccheggiare e incendiare intere coltivazioni, per impedire ad altri profughi, i tre milioni di disperati scacciati dalle zone riconquistate dal regime e spediti con la forza tutti nella provincia di Idlib, di poter sopravvivere. Proprio lì dove sono stati mandati tutti i jihadisti (foraggiati da Qatar e Arabia Saudita e oggi armati dalla Turchia) al fine di poter presentare la guerra contro i profughi come una guerra contro i jihadisti.

LA BILANCIA DEMOGRAFICA

Tutto questo i libanesi lo sanno, ma non lo vogliono sentir dire perché hanno paura, una paura antica, soprattutto se cristiani: che i profughi siriani di oggi, come quelli palestinesi di ieri, possano alterare la bilancia demografica che regola l’equilibrio libanese tra musulmani e cristiani. Siccome i profughi sono quasi tutti musulmani di rito sunnita, quelli che il regime non vuole più nel Paese, far crescere il timore popolare, alimentare il fuoco della paura è un meccanismo semplice e nel breve elettoralmente fruttuoso, soprattutto se si considera che in Libano il milione e passa di profughi vive tra appena quattro milioni di libanesi. Questa paura la ritroviamo alimentata anche dalle verità parziali, come quella esternata dal parroco di Aleppo, Ibrahim al-Sabagh. In un’intervista televisiva ha ricordato i razzi lanciati dai jihadisti contro Aleppo, senza citare però né chi oggi li armi, cioè la Turchia, né le 400 bombe giornaliere sganciata ogni giorno soprattutto contro i civili intrappolati nella disperata provincia di Idlib, e che molte volte hanno documentatamente colpito anche scuole e ospedali. Eppure è improbabile che il parroco di Aleppo non sappia che ormai ci sono anche servizi corredati di immagini impressionanti, come quello della britannica Channel 4, che documentano gli incendi causati dall’aviazione siriani di estese piantagioni.

L’OBIETTIVO DI BASSIL

Alimentare la paura settaria sembra l’obiettivo del ministro Bassil e del suo alleato di ferro, il leader di Hezbollah Hasan Nasrallah, per il quale la tensione tra cristiani e sunniti è una benedizione, perché rafforza l’idea dell’alleanza delle minoranze, cioè l’alleanza politica tra le minoranze religiose della regione, in primis i cristiani, e la minoranza dell’Islam, gli sciiti. Ma lo sciismo con questo non c’entra: Nasrallah è un eretico di formazione apocalittica e di rito khomeinista, cioè di quelli che credono nel governo del giureconsulto, che è la guida spirituale della rivoluzione iraniana. Il loro obiettivo è khomeinistizzare tutto lo spazio che va da Tehran al Mediterraneo. Un disegno al quale sono non solo estranei ma contrari il grande ayatollah iracheno al-Sistani, il leader dello sciismo iracheno al-Khoei e numerose personalità sciite libanesi, emarginate o rimosse da Hezbollah. L’aiuto che il potente capo della diplomazia libanese dà a questa visione del presente, la divisione lungo linee settarie, e del futuro, l’accordo tra cristiani e organizzazioni khomeiniste, è dunque molto importante, forse cruciale.

IL RUOLO DELLA CARITAS

Il ministro Bassil sa bene che la Caritas Libano, ad esempio, non può difendere la permanenza di così tanti profughi siriani davanti ai timori antichi e profondi del mondo cristiano libanese, ma ha sempre chiesto un partner internazionale, credibile, che sia responsabile in Libano e poi in Siria della sicurezza di chi vi torni. Una richiesta responsabile ma che il regime mai accetterà, e così la Caritas non può che seguitare a dare sostegno e aiuto umanitario ai profughi. Alcuni vescovi però sono chiaramente sulla linea del ministro Bassil. E’ sempre più facile leggere sui giornali libanesi loro appelli per il ritorno in Siria dei profughi. Ma raramente si legge cosa lo impedisca. A dirlo non è stato solo l’eroe dell’assassino, Zahreddine, ma anche l’UNHCR e Human Rights Watch, arrivati a convincere anche il solitamente cauto ministero degli Affari Esteri della Germania.

TRE QUESTIONI CENTRALI

Tre dati vanno tenuti presenti: nel 2012 il Libano ha aperto i propri confini ai profughi, senza mai costruire tendopoli. La memoria dell’arrivo dell’OLP in Libano e di tutto ciò che seguì è viva in molti, e proprio questo ha consentito ad Hezbollah di impedirlo: così loro si sistemarono in campi privati, pagando la modesta baracca dove alloggiano. Dal 2014 però non sono più protetti, cioè non sono più riconosciuti come profughi. Conseguentemente nel 2015 il governo ha chiesto all’UNHCR di non registrare più i nuovi profughi siriani. Da allora è rischio il diritto al libero movimento, all’istruzione e all’assistenza sanitaria. Ma la svolta drammatica si è avuta quest’anno, 15 marzo del 2019 quando l’Alto Consiglio di Difesa del Libano ha assunto decisioni non pubbliche sui siriani in Libano. È cominciata allora un’operazione ufficiale e ufficiosa per il rimpatrio, forzato, dei siriani. La stampa internazionale ha dato giustamente ampio risalto a quanto accaduto a un gruppo di rifugiati siriani: arrivando all’aeroporto libanese da Cipro e Istanbul, sono stati arrestati, costretti a richiedere il rimpatrio e deportati in Siria. Erano 16 persone, 5 di loro registrate all’UNHCR. Eppure il Libano è vincolato dal principio internazionale di non respingimento (non refoulement) sancito dalle convenzioni internazionali che ha sottoscritto. Ma di lì a breve la Sicurezza Generale ha annunciato che tutti i siriani arrivati in Libano dopo il 13 maggio 2019 saranno rimandati nel loro Paese d’origine. E’ stata la stessa radio pubblica libanese a far sapere che nel solo mese di maggio sono stati 301 i siriani rimpatriati in forza di questa decisione. Non mancano ovviamente i gravissimi episodi di raid armati e violenza miliziana contro i profughi. Il 12 giugno Amnesty International ha denunciato il raid miliziano nella Beqaa, dove è molto forte la presenza di Hezbollah, che ha costretto centinaia di rifugiati a lasciare il campo informale di Deir al-Ahmar. Tutto è cominciato perché i profughi si sono permessi di accusare i pompieri di non essere intervenuti per spegnare un incendio. Quella notte stessa arrivarono gli aggressori, che tra l’altro urlarono “dovreste bruciare all’inferno, via da qui”. Le autorità di Baalbek hanno disposto il loro allontanamento per garantirne la sicurezza, ma nessuno si è detto disposto ad accoglierli.

LE CONSEGUENZE DELLA DECISIONE LIBANESE

Dall’inizio di questo drammatico luglio la grande stampa internazionale ha illustrato più volte la decisione del governo libanese di distruggere le abitazioni abusive nelle quali alcuni di loro vivevano. Dapprima è intervenuto il genio militare, demolendo alcune misere abitazioni. Poi è stato deciso che i siriani dovevano procedere da soli se si voleva evitare l’intervento dell’esercito. Solo nella cittadina di Arsal 3600 famiglie hanno ricevuto l’ordine di demolire strutture definite non legali. Il sindaco però ha parlato di decisione politica, che non ha nulla a che fare con esigenze abitative urbane. Save the Children, World Vision e Terres des hommes hanno avvertito: 15mila bambini diventeranno homeless.

L’incendio siriano sta arrivando in Libano: è impossibile pensare che i rifugiati siriani decideranno di tornare nelle mani di un regime che gli ha detto chiaramente cosa li attenderebbe una volta tornati, che li ha derubati dei loro beni e che procede sistematicamente all’uso della tortura contro tutti i suoi nemici. Ma ciò che rende paradossale la situazione è che a spingerli a tornare sono gli alleati di chi gli impedisce il ritorno, cioè Gebran Bassil e Hezbollah, che sanno benissimo quale sia la scelta del regime. Perché? Per scavare fino all’esplosione il solco tra le comunità? L’alleanza delle minoranza è una politica suicida per i cristiani, che li potrebbe portare presto a sparire anche da Libano, un Paese il cui destino sembra sempre di più un incubo.



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