E così Boris Johnson diventa oggi il Primo Ministro del Regno Unito, col mandato categorico ed esplicito di portare il Regno fuori dall’Unione Europea. Quella stessa UE di cui la Gran Bretagna chiede l’aiuto per contrastare le aggressive strategie iraniane nel Golfo Persico. Paradossi dell’oggi.
Ma non è sui paradossi della Brexit che voglio appuntare la mia attenzione oggi. Perché c’è qualcosa di più sottile ed interessante nella vicenda personale di Boris Johnson, che induce ad una riflessione più ampia sugli errori dell’integrazione europea e sul rapporto fra generazioni. Il padre di Boris, Stanley Johnson, non solo è stato membro del Parlamento Europeo (dal 1979 al 1984), ma anche un fervente sostenitore del Progetto Spinelli (che contribuì a stilare, in qualità di membro della Commissione Affari Istituzionali); e con Spinelli ed altri sette parlamentari (Balfe, Gaiotti, Key, Leonardi, Lücker, Visentini e Von Wogau) fu fondatore nel luglio 1980 del Club del Coccodrillo per il rilancio del processo costituente in Europa (come ricorda Pier Virgilio Dastoli, che era presente all’incontro in qualità di assistente di Spinelli), che si preoccupò di raccogliere un ampio consenso nell’aula parlamentare sul ‘Progetto di Trattato sull’Unione Europea’, poi adottato a Strasburgo a larghissima maggioranza nel febbraio 1984.
Sostenitore di un federalismo pragmatico, fondato sul funzionalismo (le funzioni di governo vanno assegnate al livello al quale vengono meglio svolte) e la sussidiarietà, Stanley era convinto della necessità di andare oltre la semplice cooperazione delle istituzioni comunitarie per realizzare una struttura multilivello più leggera ma anche più efficiente, capace di allocare al livello sovranazionale poche ma essenziali funzioni di governo. Come le politiche ambientali, di cui Stanley è stato ed ancora oggi è un acceso sostenitore (nonché scrittore di successo). E proprio sulla battaglia per le politiche ambientali Stanley nel 2016 aveva fondato la battaglia a favore del ‘Remain’ (una decisione poi rivista pro-Brexit, a causa, dice lui, della intransigente e miope politica di Juncker).
Che cosa è successo in questi quarant’anni, se nel 1979 Stanely era convinto che l’Europa dovesse e potesse essere riformata dall’interno ed oggi Boris si è convinto che questa speranza è diventata vana? Siamo sicuri che la colpa sia tutta di Boris, dei figli che si rivoltano contro i padri, dell’occasione (privata, personale, ma di rilevanza pubblica) per risolvere il complesso di Edipo? O non è stata forse proprio la UE ad aver bellamente ignorato le richieste di trasformazione in una genuina democrazia sovranazionale multilivello, ad aver rafforzato il ruolo intergovernativo a scapito del metodo comunitario, ad aver reagito in maniera contradditoria e squilibrata alle ripetute crisi dell’ultimo decennio? Ad aver affossato la riforma in senso federale di Spinelli per avvicinarla ai cittadini e darle dignità sulla scena mondiale, spostandola verso una struttura sempre più tecnocratica?
Vedremo nei prossimi mesi come si muoverà Boris nei confronti di Bruxelles. È possibile che riesca laddove ha fallito la May: a realizzare la Brexit, anche a costo del no-deal. Difficile aspettarsi che presti attenzione al testo della canzone di Cat Stevens, dove il padre suggerisce al figlio: “It’s not time to make a change, just relax, take it easy”… Ma, piuttosto che giocare al facile gioco dell’accusa nei confronti dei Brexiteers, farebbero bene la UE e tutti i suoi paesi membri, così come i mass media, ad interrogarsi criticamente sugli elementi che hanno allontanato i cittadini britannici (ma non solo loro) dalla speranza che aveva animato l’azione politica di Stanley, poter realizzare una nuova stagione costituente per la realizzazione di una federazione (magari ‘leggera’) in Europa, piuttosto che perseguire ostinatamente politiche intergovernative che si risolvono in compromessi diplomatici dove inevitabilmente prevale la ‘legge del più forte’.