Per comprendere le varie dimensioni del confronto in atto tra Stati Uniti e Iran, Formiche.net ha contattato Nicola Pedde, direttore di Igs (Institute for Global Studies), esperto delle dinamiche interne della Repubblica islamica, in libreria con “1979 rivoluzione in Iran. Dal crepuscolo dello scià all’alba della Repubblica Islamica”.
(Questa è la prima parte dell’intervista. Domenica verrà pubblicata la seconda su prospettive e previsioni per la crisi, ndr)
Gli iraniani sembrano aver dimostrato di poter spingere sul confronto, e sembrano in superiorità tattica nel Golfo, nonostante il dispiegamento militare Usa. È così?
Sul dossier c’è una confusa politica (se ne parlerà più avanti, ndr), accompagnata da un dispiegamento di forze senza precedenti nel Golfo Persico, che sia Washington che Teheran cercano di gestire evitando i “cigni neri”. La Us Navy utilizza il farsi nelle sue comunicazioni con le imbarcazioni iraniane, e soprattutto quelle dell’Irgc (il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, ndr), al fine di evitare fraintendimenti che possano condurre all’incidente. Stessa cautela impiegano le unità navali iraniane, attente a non assumere una postura interpretabile dai militari Usa come aggressiva.
L’incidente del Global Hawk (il drone americano abbattuto dall’Iran due settimane fa, ndr) è stato gestito tutto sommato molto bene da entrambi. C’è stato uno sconfinamento, probabilmente minimo e per errore, volando in prossimità dello spazio aereo iraniano, e gli Stati Uniti non hanno reagito all’abbattimento. Non credo ci sia stata nessuna operazione cancellata all’ultimo momento dal presidente Trump, quanto piuttosto una reale valutazione su quanto accaduto e una pragmatica decisione finale.
La crisi sembrava essere rientrata abbastanza nei ranghi nel corso delle ultime due settimane, con palesi aperture da ambo i lati nella ricerca di un contesto entro cui far ripartire i termini di un negoziato.
Mah… che cosa ha portato all’alterazione di questo delicato semi-equilibrio vista negli ultimi giorni?
Questo contesto è stato alterato dalla decisione della Gran Bretagna di sequestrare una nave iraniana a Gibilterra con l’accusa di aver violato le sanzioni sulla Siria, facendo seguire la ritorsione iraniana contro una petroliera britannica in ingresso nel Golfo Persico, che con ogni probabilità costerà all’Iran l’accusa di aver condotto un atto di pirateria. In aggiunta a tutto questo, un drone iraniano sembrerebbe essere stato abbattuto da un’unità navale statunitense, riportando il livello della tensione ai massimi valori.
Ma cosa sta facendo l’Iran?
La strategia iraniana in questo momento è quella di contenere le possibili derive della confusa strategia della “massima pressione” voluta dall’amministrazione Trump, che è solo una banale applicazione alla politica estera delle tecniche negoziali sbandierate nei libri del presidente.
Qual è il problema di questa tecnica di pressing?
La strategia della “massima pressione” è pericolosa perché non prevede un piano B. O funziona o produce un’escalation, che, paradossalmente né Trump, né l’Iran vogliono. Approfittano di questa palese carenza strutturale della strategia di Trump tanto il suo National Security Advisor, John Bolton, quanto il primo ministro israeliano Netanyahu e il crown prince saudita Mohammad Bin Salman, cui l’escalation al contrario interessa molto per ragioni diverse e personali di ognuno, ma che vorrebbero far gestire direttamente agli Stati Uniti.
Cosa si dice a Washington sull’Iran?
I segnali che arrivano da Washington sono confusi per l’Iran. Da una parte è chiaro che Trump ambisce a definire un nuovo accordo con Teheran, senza preoccuparsi troppo di cosa includa o come sia strutturato, ma in grado di poter essere presentato come un successo personale e come un accordo migliore di quello a suo tempo definito da Barack Obama. Dall’altro lato è altrettanto chiaro che una parte dell’establishment, in particolar modo il National Security Advisor, preme per la crisi puntando sulla scricchiolante strategia del regime change, mentre il dipartimento di Stato e l’intelligence assumono una postura neutra, in attesa di comprendere come effettivamente muoversi.
E in Iran? Cosa succede a Teheran?
In Iran, nemmeno i Pasdaran spingono al confronto, ma devono gestire una tensione lungo le proprie coste, e soprattutto ad Hormuz, ormai elevatissima. Il contesto politico interno in Iran è rovente, caratterizzato dalla percezione di un tradimento globale dell’accordo internazionale sul Jcpoa (l’intesa che ha congelato il programma nucleare del 2015, ndr) e dalla volontà di strangolare economicamente il Paese, con la necessità di dare risposte all’opinione pubblica e non ingenerare la percezione di una disfatta politica.
Per fare una sintesi?
La sintesi è quella di una situazione dove c’è una mutua volontà di individuare il terreno per un negoziato, reso tuttavia difficile dalla persistenza degli effetti inutili quanto dannosi di una strategia tanto banale quanto inefficace, che non produce risultati di alcun tipo se non quelli di ostacolare una soluzione. Tanto gli Stati Uniti quanto gli iraniani cercano quindi di agire muscolarmente senza mai tuttavia sorpassare quella sottile linea rossa che condurrebbe all’escalation militare. Un’impresa difficile, soprattutto oggi.
Nei due principali episodi della crisi che s’è innescata nel Golfo — i già citati abbattimento del Global Hawk e il sequestro della petroliera inglese — abbiamo (ri)sentito parlare dei Pasdaran, il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica iraniano (Irgc), come responsabili. Credo che per analizzare le dinamiche di questa crisi, valga la pena spiegare di cosa parliamo.
Quando ci si riferisce ai Pasdaran bisogna tener conto che sono una realtà molto complessa e articolata. Buona parte delle informazioni di fonte aperta disponibili sulla Sepah-e Pasdaran sono il frutto di stereotipi, interpretazioni strumentali o semplici fantasie di commentatori estemporanei. Si tratta invece di un vero e proprio “sistema”, che include una componente militare (una delle due presenti in Iran), ma anche e soprattutto una componente economico-industriale e politica.
Quanto sono compatti?
Il “sistema” dei Pasdaran, come tale, include anche molte differenti posizioni ideologiche, così come approcci differenti alla gestione della politica internazionale e di sicurezza. Basti pensare alle grandi differenze ad esempio tra esponenti di spicco dell’Irgc come il generale Soleimani, comandante della Quds Force, un raffinato stratega (raffigurato dagli occidentali tuttavia come un mero fanatico), e l’attuale comandante generale Salami, che invece ha un profilo più marcatamente politico.
Differenze tenute insieme dalla Guida, però?
Le diverse componenti di questo “sistema” si raccordano saldamente nell’ambito dell’infrastruttura istituzionale, in particolar modo nell’ambito dell’Ufficio della Guida, che è di fatto un vero e proprio ministero, nell’ambito del quale viene gestita buona parte dell’attività negoziale sul piano della politica.
La figura istituzionale della Guida (anch’essa purtroppo vittima di uno stereotipo interpretativo che la raffigura come una sorta di monarca assoluto) è il centro vitale di questo sistema. Un primus inter pares, però, non un decisore assoluto autonomo, che interpreta i sentimenti delle diverse anime del sistema e li raccorda all’interno di linee politiche il più possibile rappresentative della maggioranza.
Dunque dietro i Pasdaran c’è una struttura, ma non hanno un’autonomia all’interno del sistema statuale iraniano?
L’idea che l’Ircg sia di fatto una struttura autonoma e indipendente dal contesto politico-istituzionale – e quindi capace di gestire le complesse fasi di una crisi come questa solo all’interno della propria catena di comando – è purtroppo frutto di quegli stereotipi e di quelle semplificazioni funzionali all’attribuzione di un connotato di irrazionalità al paese e alle sue strutture politiche e militari. Un errore interpretativo profondo, che non consente poi di effettuare analisi calibrate e commisurate alla realtà.