Nonostante il noto problema del budget, troppo risicato rispetto ai maggiori alleati, l’Italia sta riuscendo a portare l’Alleanza Atlantica a una maggiore attenzione al fianco sud. Lo sta facendo grazie a uno sforzo diplomatico continuo, al contributo alle missioni internazionali e a una scelta di campo che, da settant’anni, garantisce pace, sicurezza e (quindi) crescita per il Paese. Parola dell’ambasciatore Francesco Maria Talò, rappresentante permanente dell’Italia al quartier generale della Nato e già coordinatore per la cyber-security al ministero degli Esteri. Lo abbiamo intervistato in occasione della XIII Conferenza delle ambasciatrici e degli ambasciatori d’Italia nel mondo, organizzata dalla Farnesina e concentrata quest’anno sul tema “La politica estera italiana verso l’Orizzonte 2030, tra continuità e cambiamento”. Da oggi a venerdì, con la presenza del presidente Sergio Mattarella nella giornata d’apertura e quella del premier Giuseppe Conte per la chiusura, parteciperanno in diverse sessioni cento ambasciatori italiani, chiamata a intervenire su temi come Mediterraneo, globalizzazione e soft power. Si parlerà anche di Alleanza Atlantica, uno dei pilastri della politica estera italiana che sta vivendo tempi turbolenti tra sfide esterne e questioni interne. Ne abbiamo parlato con il nostro rappresentante a Bruxelles, giunto nella capitale belga lo scorso aprile.
Ambasciatore, lei ha assunto l’incarico ormai da qualche mese. Che impressioni ha avuto sulla considerazione che gli alleati hanno del nostro Paese all’interno dell’Alleanza?
Ho avuto impressioni sinceramente molto positive. Sono arrivato da novizio, non essendo mai stato nella sede nonostante la mia conoscenza delle questioni e dei problemi. Certamente sapevo che l’Italia, come è normale per un Paese di tali dimensioni e con un impegno costante nel contributo alla sicurezza comune, gode di ampia considerazione. Siamo ascoltati dagli alleati sia per la coerenza delle posizioni, saldamente ancorate al nostro campo di appartenenza che deriva da una scelta fatta più di settant’anni fa, che tra l’altro ci ha assicurato sicurezza, libertà e crescita, sia per le persone, con diplomatici ed esponenti delle Forze armate che fanno uno straordinario gioco di squadra per l’Italia. In più, affermiamo un certo metodo di rispetto dei valori comuni e delle regole che derivano dal multilateralismo.
Ci spieghi meglio.
Con le scelte fatte dopo la Seconda guerra mondiale, il multilateralismo è entrato nel Dna della diplomazia italiana. Non va confuso con il velleitarismo. Multilateralismo vuol dire riuscire a mettere insieme idee e risorse per essere più solidi e avere più successo lì dove, da singoli, non riusciremmo o avremmo bisogno di sforzi estremamente maggiori. Lo facciamo senza mai rinunciare ai nostri interessi nazionali, ma (al contrario) affermandoli in modo deciso. Siamo rispettati quando ascoltiamo gli altri e pretendiamo di essere ascoltati.
Su questo, in particolare, l’Italia chiede da tempo agli alleati di aumentare l’attenzione al fronte sud. Dopo l’attivazione dell’Hub di Napoli, ci sono altri riscontri positivi?
Sì, assolutamente. Sul tema non siamo soli. Da qualche tempo c’è sensibilità anche da parte di quei Paesi apparentemente lontani geograficamente dal fronte sud. Cresce la consapevolezza in un concetto in cui crediamo fortemente: la sicurezza indivisibile. Significa che, se si vuole essere efficaci come Alleanza, occorre avere una concezione di piani di difesa a 360 gradi. Significa che non esiste un fianco meno prioritario di un altro. Tra l’altro, il fronte sud, che chiaramente ci riguarda per primi, è proprio quello da cui originano minacce nuove, non immediatamente percepibili secondo i canoni tradizionali, ma non per questo meno insidiose.
Pensa al terrorismo?
Certo. Concettualmente, il terrorismo ha pari valore rispetto alle minacce cosiddette tradizionali che arrivano da est. Si parla di cose molto concrete. Ne sono state vittima le principali città europee, grandi capitali che non appartengono al sud geografico del continente. Per questo, è evidente che occorre rivolgere un’attenzione particolare al fronte meridionale dell’Alleanza, a partire dal dialogo e dai partenariati che abbiamo con la sponda nordafricana. In tali aspetti, anche l’Hub strategico di Napoli può svolgere un ruolo importante.
La posizione italiana resta comunque scomoda sul tema del budget, con la notevole distanza dall’obiettivo di spendere per la Difesa il 2% del Pil entro il 2024. Come ci stiamo muovendo sulla questione?
Il tema è ovviamente sotto gli occhi di tutti. Sarà sicuramente oggetto anche dei prossimi incontri politici, soprattutto in quello principale che vedrà riunirsi, il prossimo dicembre, i capi di Stato e di governo a Londra. Sappiamo bene dell’esigenza manifestata sul tema del burden sharing dagli Stati Uniti, anche perché sono impegni che abbiamo sottoscritto in comune. Tuttavia, è bene ricordare che non c’è solo il 2%, obiettivo difficile per molti. Nel complesso, sono tre gli obiettivi, le cosiddette “tre C”, definite in Galles nel 2014. Il 2% riguarda il cash. Poi ci sono le capabilities, ovvero le spese destinate agli investimenti con l’obiettivo di destinarvi il 20% delle spese per la difesa. Su questo siamo nel gruppo dei virtuosi, avendo raggiunto la quota in ampio anticipo. Vuol dire che l’Italia spende bene le proprie risorse e ciò è ampiamente riconosciuto dagli alleati. Vuol dire infatti che il nostro dispositivo militare funziona bene nonostante la limitatezza delle risorse. Si tratta di spese su tecnologie che ricadono a favore della nostra industria e che producono innovazione per tutto il Paese.
E la terza C?
Sta per contribution, cioè il contributo alle missioni. Anche qui siamo nel gruppo di quelli che fanno bene. D’altra parte, sono scelte importanti anche a livello politico, poiché riguardano in teatri complessi l’invio di donne e uomini che hanno sempre contribuito in modo impeccabile alla sicurezza comune. Basti pensare alla partecipazione italiana alle missioni in Afghanistan e Kosovo.
Sulla missione in Afghanistan la linea resta quella di andare via solo tutti insieme?
Sì. Occorrerà adattarsi agli sviluppi e farlo comunque insieme, salvaguardando gli importanti progressi raggiunti grazie al nostro impegno. Lo hanno confermato i ministri della Difesa nell’ultima riunione di fine giugno. La speranza è che possano esserci sviluppi positivi nel processo di pace avviato dal rappresentante speciale per l’Afghanistan degli Stati Uniti, l’ambasciatore Zalmay Khalilzad. La nostra missione ha avuto un ruolo fondamentale per la sicurezza e per fronteggiare quel terrorismo che abbiamo visto drammaticamente attaccare il cuore del nostro campo e del nostro modo di essere l’11 settembre, una data che per tutti noi ha un valore particolare e che io ho vissuto mentre ero a New York.
L’ancoraggio all’Alleanza è uno dei capisaldi della nostra politica estera. Cosa si attende da questo punto di vista dalla XIII Conferenza delle ambasciatrici e degli ambasciatori d’Italia nel mondo che si apre oggi alla Farnesina? Tratterete anche questi temi?
Penso di sì. Abbiamo già avuto un primo incontro con altri colleghi che operano in sedi multilaterali ieri, affermando quanto sia importante nella nostra professione avere una chiara collocazione. È un aspetto fondamentale per la nostra credibilità. Anche perché significa riconoscersi nei valori della nostra Repubblica, gli stessi che hanno determinato una scelta di campo, quella del dopoguerra, che ci ha assicurato sicurezza, libertà e crescita, determinando il periodo più lungo di pace che ci sia stato da secoli nella Penisola. Ciò è stato possibile proprio perché siamo parte, come membri fondatori, dell’Alleanza Atlantica.
Una scelta di campo da confermare insomma?
Certamente. Bisogna tenerla sempre a mente poiché la diplomazia agisce nel contesto di una convinta adesione a questa scelta di campo, e lo fa per il benessere dei cittadini cercando di essere proattiva e propositiva, impegnandosi a disegnare un ruolo da protagonista a un Paese di rilievo come il nostro. La Conferenza sarà occasione per parlare di queste cose tra di noi. Incontrarsi faccia a faccia, oltre le comunicazioni costanti che abbiamo quasi quotidianamente, è fondamentale. Ancora di più è farlo con l’interlocuzione con le istituzioni e la società italiana, partendo dal presidente della Repubblica che ci onora della sua presenza nella giornata di apertura e che noi abbiamo l’onore di rappresentare in quanto ambasciatori d’Italia.
Tra i temi caldi dell’Alleanza ci sono i missili. Con la fine ormai certificata dal Trattato Inf tra Russia e Stati Uniti, non teme una nuova corsa agli armamenti in Europa?
Il trattato è stato fondamentale perché ha garantito sicurezza al nostro continente per oltre trent’anni. D’altra parte, mantenere un accordo in cui una delle due parti ne viola gli impegni diventa un fattore di rischio. Ora, a pochi giorni dalla fine ufficiale del trattato, si apre un nuovo capitolo, ma non per forza va letto drammaticamente. Su questo, è importante che il dialogo con la Russia vada avanti.
In che modo?
Ho partecipato io stesso a inizio mese all’ultima riunione del Consiglio Nato-Russia. La discussione è stata franca e utile per tutti, e continuerà a essere così. Poco dopo quella riunione, il comandante supremo delle forze alleate in Europa (Saceur), generale Tod Wolters, ha incontrato a Baku il capo di Stato maggiore russo Valery Gerasimov. Entrambe le parti hanno constatato l’utilità di vedersi e di scambiarsi informazioni sulle reciproche esercitazioni, un aspetto di trasparenza di grande importanza per evitare incomprensioni ed escalation.
Si parla di un nuovo accordo che coinvolga anche la Cina.
Inevitabilmente. Ormai, oltre a Stati Uniti e Russia, c’è anche Pechino come attore di grande rilievo. Vedremo se i tempi sono maturi per un accordo di portata più ampia che potrebbe garantire maggiore sicurezza per tutti.