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La lezione dimenticata di Hirschman

Albert Otto Hirschman è un economista tedesco che nel 1970 introdusse un’innovazione teorica importante per capire il comportamento degli agenti economici. Fino a quel momento, i modelli economici partivano dal presupposto che di fronte ai segnali di mercato gli agenti avrebbero potuto fornire solo risposte binarie: accettare o rifiutare. Una scelta radicale, talvolta costosa… e soprattutto irrealistica, osservò Hirschman. Perché spesso, piuttosto che ‘uscire’ da una situazione, un contratto, una scelta, è preferibile to ‘voice’, ossia protestare, spiegare che cosa non va bene della situazione in cui ci troviamo, insomma: meglio far sentire la propria voce prima di effettuare scelte irreparabili. Così, se ci accorgiamo che il fruttivendolo dal quale ci serviamo ogni giorno ha raddoppiato il prezzo delle mele, non è detto che semplicemente usciamo dal negozio per cercarne un altro in cui le mele hanno un costo inferiore (anche questa ricerca ha un costo) ma molto più banalmente protestiamo col negoziante e cerchiamo di comprendere se esistano margini di trattativa. Prevale insomma il tentativo di raggiungere l’obiettivo (acquistare le mele) piuttosto che la presunta razionalità dell’agente economico.

Una lezione preziosa, ma dimenticata da Rainer Masera (in buona compagnia, occorre dirlo), che ha recentemente pubblicato un articolo, EMU: An Italian perspective, in cui invita i paesi membri dell’eurozona ad introdurre delle clausole d’uscita dalla moneta unica. Una proposta non nuova, sostenuta in passato anche dalla Germania, nel percorso di revisione della governance economica dell’euro. Una proposta avversata da quelli che Masera definisce “economisti convenzionali”, tra i quali evidentemente il sottoscritto.

Se gli architetti e padri fondatori dell’euro hanno scelto di non introdurre clausole di uscita dall’euro, l’hanno fatto per delle motivate ragioni, che occorre ricordare. La prima è che una clausola di uscita indebolisce l’impegno (politico) alla sua sopravvivenza. E siccome una moneta, al di là delle technicalities, è essenzialmente un impegno politico a garantirne il valore nel tempo e ad assicurare che l’economia sottostante abbia performance macroeconomiche complessivamente soddisfacenti, indebolire quell’impegno significa porre le basi per la sua distruzione. Un secondo punto concerne le aspettative. È innegabile che viviamo in un mondo in cui le aspettative (come si formano, si alimentano, vengono guidate, vengono soddisfatte e più spesso tradite) hanno un ruolo centrale nell’economia. La finanziarizzazione dell’economia ha acuito questo problema. Da qui la necessità di fornire una guida stabile sulla base della quale le aspettative si formino. Naturalmente, una governance monetaria relegata unicamente a regole rigide (come oggi è l’euro) rischia di guidare le aspettative in maniera destabilizzante e prociclica; ma se questo è il problema, perché non riformare questo sistema perverso, piuttosto che chiederne l’uscita?

Anche gli Stati che compongono la federazione USA non possono unilateralmente abbandonare il dollaro, senza uscire dalla federazione stessa. Mi si dirà che, come d’altronde la letteratura economica va ricordando da decenni, gli USA non sono la UE, mancando in quest’ultima i meccanismi di stimolo e redistribuzione delle risorse a livello federale (sovranazionale) che caratterizzano la prima.

È vero che la sostenibilità di una moneta unica non può essere assicurata per decreto, e che prima o poi il problema di politiche economiche decentrate a livello nazionale in presenza unicamente di vincoli sovranazionali finisce per acuirsi …ma perché agevolare l’uscita di una giurisdizione amministrativa, rischiando che si formino aspettative che si autorealizzano, piuttosto che cambiare le regole del gioco?

Masera riconosce che le debolezze dell’euro hanno a che fare sia con aspetti tecnici sia con promesse politiche non mantenute. Ma sembra indulgere nella narrazione ormai divenuta dominante in Italia secondo la quale non vi sono possibilità di ‘voice’, di protestare, di portare avanti un’agenda per individuare un compromesso cantierabile di riforma della governance dell’eurozona; ma che solo con una ‘exit’, o una minaccia di ‘exit’, sia possibile risolvere i problemi dell’economia italiana.

Un grave errore di prospettiva. Perché fino ad oggi (a parte qualche slogan irrilevante e proposte sinceramente inaccettabili di mutualizzazione del debito o del rischio connesso) nessuna ‘voce’ credibile si è levata per affrontare seriamente la riforma della governance dell’euro: chiedendo un sistema di regolazione dei saldi commerciali simmetrico che costringa alla reflazione ed all’espansione fiscale i paesi sistematicamente in surplus, ponendone la guida sotto l’egida di un governo rappresentativo della volontà democratica dei cittadini europei, espandendo la fornitura di beni pubblici europei, creando un fondo di stabilizzazione macroeconomica non sottoposto a decisioni meramente intergovernative, tanto per fare qualche esempio. Insomma, prima di buttare a mare l’ipotesi di una sana e costruttiva ‘protesta’ ed aprire la strada al rischio di una disastrosa dissoluzione dell’euro, sarebbe il caso che gli ‘economisti non convenzionali’ si dessero da fare per trovare ipotesi cantierabili per la sua riforma.


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