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Gas e non solo. La questione del Qatar secondo Valori

Agli inizi del giugno 2017, un gruppo di potenze arabe, tra cui l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain, l’Egitto (che ora si è allontanato da questo gruppo anti-Qatar) poi le Maldive, la Mauritania, il Senegal, Gibuti, le Comore la Giordania e il governo libico di Tobruk, sostenute dagli Usa, sospese le relazioni diplomatiche, le comunicazioni e gli scambi commerciali con il Qatar.

L’emirato ha ancora buoni rapporti con gli Stati Uniti, di cui ospita la più grande base militare in Medio Oriente, ma vuole mantenere relazioni amichevoli anche con la Repubblica Islamica dell’Iran, con la quale Doha condivide la proprietà del South Pars-North Dome, il maggiore deposito di gas naturale e condensati del mondo, che si trova sotto le acque del Golfo Persico, tra le acque territoriali dei due Paesi.

LE RAGIONI DELLA TENSIONE

Forse, la radice delle tensioni tra il Qatar e il resto del mondo sunnita, ancora capeggiato dai sauditi, risiede nel golpe con cui lo Shaikh bin Khalifa al Thani, l’attuale Emiro, estromise dal potere il proprio padre, Khalifa bin Hamad, nel 1995. Il padre dell’attuale capo del Qatar era notoriamente pro-saudita. La relazione di Doha con l’Iran presuppone, peraltro, alcune questioni geo-economiche che è necessario definire.

L’Emirato è il maggior produttore e esportatore al mondo di GPL, Gas di Petrolio Liquefatto. Nel 2017 ne ha commercializzati 81milioni di tonnellate, con una quota del 27,6% del mercato globale del GPL. L’Australia è la seconda esportatrice, ma rimane solo al 19,2% mondiale. Inoltre, il Qatar esporta altri NGL, Natural Gas Liquids, per oltre 800.000 barili/giorno; e quindi l’Emirato è anche un diretto competitore degli Usa, che si avviano a diventare forti esportatori delle varie tipologie di gas naturale, oltre che di petrolio. L’Arabia Saudita, invece, esporta quasi unicamente petrolio, non produce GPL e pochissimo NPL; e non vi sono scambi economici sugli idrocarburi tra Qatar e Bahrain e, ovviamente, Riyadh. Con gli Emirati, il caso è diverso.

LA QUESTIONE GPL

È già operante una pipeline tra Emirati Arabi Uniti e Qatar, il Dolphin Gas Project, che trasporta circa 2 milioni di metri cubi al giorno di gas naturale dal deposito del Golfo Persico, il North Dome South Pars, verso gli Emirati, che poi distribuiscono il prodotto negli Emirati stessi e all’Oman. Ovviamente, dato che il trasporto del GLP qatarino verso i suoi consumatori finali, all’Est come all’Ovest, avviene per nave, salvo le eccezioni della Penisola Arabica, il blocco imposto all’Emirato dall’Arabia Saudita e dai suoi alleati non modifica l’equilibrio commerciale di Doha.

Ma anche Riyadh ha bisogno del gas naturale, per sostenere l’espansione prevista dal programma di Mohammed bin Salman Vision 2030, e pure il Bahrain e il Kuwait ne hanno forte bisogno, del GPL del Qatar, senza dover andare a comprare gas naturale altrove, che è molto più caro. L’Egitto, da poco importatore netto di gas naturale, ora sta sviluppando, con il supporto dell’Eni, il deposito di gas naturale sottomarino Zohr, al largo di Alessandria. Insomma, il blocco “antiterrorismo” dell’Arabia Saudita contro l’Emirato del Qatar appare più come una mossa indiretta contro l’Iran, creduta dai soliti occidentali inetti, che non una azione davvero diretta contro l’economia dell’Emirato, che continua indisturbato il suo business as usual. Ma vi sono anche altri problemi da vedere, tutti squisitamente politici.

I PROBLEMI POLITICI

Intanto, c’è stata la copertura piena del Qatar, quando non il diretto sostegno, della fase delle primavere arabe, da parte sia dei Servizi dell’Emirato che della rete TV Al Jazeera. Erede, quest’ultima, della stazione della BBC in lingua araba, ma soprattutto canale primario di propaganda dei Fratelli Musulmani, l’asse di riferimento ideologico islamista dell’Emirato. E si ricordi qui come i sauditi leggano i Fratelli come il nemico n.1, insieme alle altre monarchie del Golfo. L’asse di influenza del Qatar, oggi, è soprattutto in Libia e in Egitto.

La Fratellanza che era al potere al Cairo con Morsi, il presidente dell’Ikhwan egiziano in carcere e recentemente deceduto, si è ricostituita a Doha. La Primavera Araba, elaborata dagli Usa, è subito caduta in mano del Qatar e della Fratellanza Musulmana, ed è diventata uno strumento di potere dei vari Stati islamici in Africa e in Medio Oriente. Si pensi, qui, alla rivolta del 2011 in Siria, anch’essa organizzata dalla Fratellanza Musulmana, che poi non è arrivata al potere per la durezza e la accortezza del regime di Bashar El Assad e, soprattutto, grazie alla rapidità e efficacia dell’impegno militare russo e iraniano.

Ma il Qatar partecipa anche alla lotta, diretta da Riyadh, contro gli Houthy in Yemen, ha da molto tempo trattato con i Taliban afghani, anche a sostegno degli Usa, mentre l’Emiro di Doha ha anche cercato di mediare tra Israele e Hamas, peraltro anch’essa costola dei Fratelli Musulmani. Hamas, il “fervore” islamico che, da referente dell’Iran nei Territori e nella Striscia di Gaza, è passato sotto le insegne del Qatar, dato che Teheran non ha gradito il sostegno di Hamas alla rivolta contro Assad in Siria. Il Qatar, quindi, ha utilizzato la Primavera Araba, la collana di perle delle insurrezioni più o meno popolari che hanno destabilizzato il Maghreb, iniziata nelle menti, non molto brillanti, della Cia, per utilizzarla a proprio vantaggio e renderla soprattutto lo strumento di una nuova strategia globale dell’Emirato.

LA NUOVA STRATEGIA DELL’EMIRATO

Tutti i Paesi arabi sapevano, infatti, che l’Occidente, che ha il fiato corto, se ne sarebbe andato dai Paesi da esso destabilizzati immediatamente dopo le prime elezioni, manipolate o meno. Certo, l’Emirato ha a disposizione una cabina di regia ideologica che è diffusa in tutto l’Islam, la Fratellanza Musulmana, una rete di mediazioni, perfino con Israele, non trascurabile, un prodotto primario, il GPL, che non ha gli stessi cicli del petrolio ed anzi è, talvolta, alternativo agli idrocarburi oggi più diffusi.

Prima della Primavera Araba, la politica estera dell’Emirato era quella di una nicchia autonoma dove tutti trattavano con tutti. La stessa distribuzione globale dei contratti qatarini per il gas naturale permetteva a molti paesi, anche in Occidente, di investire nel Qatar avendo la garanzia di una sua particolare stabilità interna. Se altri Paesi dell’OPEC, organizzazione dalla quale l’Emirato di Doha è uscito a partire dal 1 gennaio 2019, trattano i prezzi del petrolio insieme agli altri due massimi produttori non-arabi e non-islamici, Russia e Stati Uniti; il Qatar che oggi esce dall’Organizzazione petrolifera dominata dai sauditi vuole essere soprattutto un esempio per tutti gli altri piccoli produttori.

Ai quali, con ogni probabilità, l’Emirato offrirà la possibilità di unirsi in una nuova Organizzazione, slegata da Riyadh, anzi, con una politica dei prezzi opposta, e tale da far entrare nel “giro” petrolifero e gaziero anche Paesi periferici, come la Malaysia, i nuovi paesi petroliferi africani, forse perfino il Venezuela ancora in crisi e il Sud-Est asiatico. Certo, il Qatar non influenza i mercati globali come l’Arabia Saudita, siamo a 600.000 barili/giorno, a parte il gas naturale, rispetto agli 11 milioni circa al giorno dei barili prodotti dai sauditi. Ma qui il problema è il gas naturale, non il “vecchio” petrolio. Ma, se l’Arabia Saudita non lega a sé i nuovi mercati, con una politica dei prezzi adatta, la crisi definitiva dell’OPEC è sempre più probabile.

La rivoluzione Usa dello shale oil (and gas) dal 2014 in poi, ha spinto Riyadh a tagliare la produzione, con il relativo aumento dei prezzi del petrolio, ma il gas naturale segue diversi equilibri, che certamente Doha intende utilizzare anche sul piano politico. Uscito l’Iran dal quadro dei paesi esportatori OPEC con le sanzioni imposte dagli Usa, c’è stata la corsa a “tappare” i mercati, che prima dipendevano spesso dal petrolio di Teheran. Peraltro, se Riyadh ha la necessità geopolitica di diminuire la produzione, si trova anche a dover alzare i prezzi per sostenere il proprio bilancio pubblico, per la prima volta in netta crisi debitoria. Secondo gli esperti internazionali, il prezzo utile, per l’Arabia Saudita, dovrebbe essere quello di 85-87 Usd al barile.

Quindi, se l’Arabia Saudita non riesce a raccogliere il sostegno per un ulteriore aumento del prezzo del barile, c’è però il Qatar che, grazie anche alla crisi del petrolio e al corrispettivo aumento del mercato del GPL, si trova a poter sostenere, anche economicamente, il peso delle sue nuove alleanze, dall’Iran alla Turchia fino a tutte le reti dei Fratelli, in Siria, nei Territori Palestinesi, in Egitto, in vari Paesi africani islamici.

I PROBLEMI ECONOMICI

Ma l’Emirato deve fare anche i conti con alcuni suoi problemi economici, che presto verranno a bussare alla porta del governo di Doha. L’infrastruttura del Qatar per la lavorazione del GPL è costata 120 miliardi di Usd, in gran parte prestati dalle banche e da alcune aziende petrolifere, tra cui la Exxon-Mobil. La prima esportazione di GPL dal Qatar ebbe luogo nel 1995, mentre già nel 2006 l’Emirato supera l’Indonesia come maggiore esportatore di gas naturale. Nel dicembre 2010 la produzione di GPL raggiunge, per la prima volta, l’obiettivo prefissato dal governo di Doha, 77 milioni di tonnellate all’anno. Clienti maggiori, tra gli altri, sono la Gran Bretagna e la Cina, con il primo shipping verso Londra che è del 2009, mentre il Qatar ha firmato un contratto quinquennale con la Cina, sempre nel 2009, per fornire 5 milioni di tonnellate all’anno di GPL.

Inizia da qui un dato politico tipico dell’Emirato: il rapporto primario con gli Usa per la sicurezza esterna (la base di Al Udeid si costruisce fin dal 2003) e la sempre maggiore autonomia in politica estera, derivante proprio dalla vastità e dalla disomogeneità politica del mercato del gas naturale qatarino. Nella costituzione dell’Emirato, votata nel 2003, si fa però cenno al “rafforzamento della pace internazionale”. Ha inizio, con la crisi economica globale del 2007-2008, che ancora non ha cessato di influire sui Paesi occidentali, la crescita relativa del peso, strategico ed economico, del Qatar, che proprio nel 2008 verifica un primo aumento annuale del Pil del 17%.

Si fa strada, nella dirigenza dell’Emirato, l’idea che l’Occidente non possa più seguire e controllare le sue tradizionali aree di influenza, mentre Cina, India e Russia si espandono e crescono economicamente, anche con un parallelo rilievo geopolitico notevole. C’è la voglia, in Qatar e altrove, di regionalizzare e emarginare i vecchi “padroni” del petrolio, gli occidentali. Peraltro, la Primavera Araba apre spazi imprevedibili ai poteri regionali arabi per quel che riguarda l’espansione economica, militare, strategica.

LE INFLUENZE 

In Libia e in Siria, anche se con il sostegno e l’accordo del Consiglio di Cooperazione del Golfo, il progetto di Doha è quello di integrare alla propria sfera di influenza aree prima del tutto legate all’Occidente, per costruire da qui, dalla Libia e dalla Siria, una futura “egemonia araba” che, con ogni probabilità, avrà un ruolo anche infra-europeo. In Bahrain e in Yemen, Doha accetta invece la supremazia dell’Arabia Saudita, di cui però vuol ridurre il peso in seno al mondo arabo, ma non certo annullarla.

Senza i soldi del Qatar, peraltro, il Consiglio di Transizione Nazionale libico non avrebbe nemmeno visto la luce. Mahmoud Jibril, che viene contattato dall’ENI addirittura prima dello scoppio delle ostilità contro Gheddafi, risiede a Doha durante la “rivoluzione” anti-gheddafiana. In Siria, il ruolo del Qatar è ugualmente importante. Ma si limita, e non è certo poco, a sostenere l’invio di truppe straniere in Siria per “fermare la carneficina”, che peraltro era inesistente, ma che viene utilizzata, per far arrivare gli ingenui occidentali, anche dalla propaganda di Erdogan contro Bashar el Assad.

Per quel che riguarda la Tunisia, il sostegno del Qatar arriva al suo massimo nel 2011, quando arriva al potere il partito islamista e legato alla Fratellanza Ennahda. Nel maggio 2012 l’Emirato annuncia l’inizio della costruzione di una raffineria nel tunisino Golfo di Gabes, una operazione da 120.000 barili/giorno.

Ovviamente, tale progetto riguarda il trattamento del petrolio libico, mentre in Egitto, nel periodo della presidenza della Fratellanza, con Mohammed Morsi, il Qatar entra nel sistema finanziario egiziano, poi concede un aiuto di 8 miliardi per il sostegno alla popolazione, poi sostiene il finanziamento ulteriore di un progetto turistico, per 10 miliardi di Usd, sulle coste egiziane.

Il problema è: riuscirà Doha a utilizzare in pieno il suo boom economico come strumento di egemonia regionale e panaraba, e riuscirà ad evitare il ritorno di fiamma dell’Arabia Saudita e dei suoi alleati, compresi gli Usa? E ancora, il mix di “jihad della spada” e di influenza politico-economica standard, utilizzato dal Qatar in tutti i suoi nuovi quadranti, sarà ancora controllabile o farà sognare a Doha una sorta di egemonia anche in Europa, data l’espansione della sua recente popolazione islamica?



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