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Perché un attentato a Bengasi è un problema enorme per il terrorismo in Libia

Un’autobomba è esplosa oggi nel quartiere Hawari di Bengasi, che è la principale città della Cirenaica, la regione orientale della Libia militarmente controllata dall’autoproclamato Feldmaresciallo, Khalifa Haftar, che dal 4 aprile scorso ha lanciato un’aggressione per rovesciare il governo onusiano di Tripoli, conquistare tutto il Paese e configurarsi come nuovo rais.

Ci sarebbero almeno quattro morti e altri feriti, perché l’ordigno è esploso in mezzo alla gente che stava celebrando i funerali di un comandante di primo piano della milizia haftariana, l’Lna – acronimo inglese per Esercito nazionale libico, definizione altisonante con cui Haftar ha deciso di chiamare i suoi uomini e giocarci intorno lo spin comunicativo per farli passare come un corpo regolare.

Ci sono due aspetti interessanti dietro a quello che è successo. Il primo riguarda il ruolo dell’Lna stesso. Haftar rivendica per la sua milizia la guida nella lotta al terrorismo, cosa che considera il motore che lo ha portato ad attaccare Tripoli – un ruolo che in una telefonata di metà aprile gli è stato riconosciuto anche da Donald Trump su spinta egiziana. La lotta al terrorismo è un elemento centrale perché è il termine propagandistico con cui Haftar e i suoi sponsor, Egitto, Emirati Arabi e Arabia Saudita, conducono le attività militari e politiche contro il governo di Tripoli, che è riconosciuto dalla Comunità internazionale in quanto sostenuto dall’Onu, ma riceve anche un appoggio sul piano armato – e diplomatico back-channel – da Turchia e Qatar.

Questo confronto interno al mondo islamico sunnita, che vede contrapporsi sostanzialmente Riad contro Ankara (e Doha contro Abu Dhabi), è un elemento ricorrente in una serie di dossier che però sulla Libia trova sfogo militare. E complica la guerra civile. È una divisione intra-sunnismo che riflette da un lato una visione universalistica, dall’altra quella dell’islamismo statuale della Fratellanza musulmana – entità panaraba che per sauditi, egiziani ed emiratini, e per Haftar in traslato, è un’organizzazione terroristica, mentre in Turchia e Qatar è un riferimento culturale finanziato e a Tripoli ha in carica esponenti nel governo onusiano.

L’elemento di caratterizzazione esterno del conflitto è importante per inquadrare il secondo aspetto interessante: chi è stato a compiere l’attentato? E dunque: con quali interessi? Al momento della stesura di questo articolo non ci sono ancora state rivendicazioni, ma è del tutto probabile che a intestarsi l’attacco sarà lo Stato islamico o qualcuno dei gruppi di Bengasi con cui l’Is ha avuto un rapporto osmotico nel 2016, quando Haftar rase al suolo mezza città per combatterli. I baghdadisti in Libia hanno ormai una dimensione da gruppo di guerriglia clandestino, perché la loro realtà statuale è stata disarticolata con la caduta di Sirte del 2016 – per opera degli Stati Uniti che hanno agito in coordinamento ibrido con le forze di Misurata, che adesso proteggono Tripoli dall’aggressione di Haftar e sono collegate alla Fratellanza, al Qatar e alla Turchia (che fatica! Ndr).

Azioni come quelle di Bengasi sono un simbolo importante, perché dimostrano che Haftar non è in grado di combattere effettivamente il terrorismo, nemmeno in casa sua, per di più durante il funerale di uno dei suoi guerriglieri più importanti (morto due giorni fa per cause naturali). Ma soprattutto creano un presupposto per Haftar, per convincerlo a spingere sull’acceleratore delle sue attività, del conflitto a Tripoli. Questo sembra un controsenso – un gruppo terroristico che lavora per far sì che uno dei suoi oppositori aumenti l’ingaggio contro il terrorismo – ma è un elemento importante se si considera che nei contesti caotici come quelli prodotti dalle guerre civili l’Is prolifera.

Trova un humus fertile per attecchire tra il risentimento dei giovani locali, si aprono spazi per propaganda e reclutamento. Ed è quello che l’Is, o le altre forze jihadiste (non solo in Libia), cercano. La forza dirompente dello Stato islamico nel Siraq è stata proprio legata a questo: la capacità di raccontare a persone deluse dal contesto socio-politico in cui erano inserite una storia di successo. Attaccare il nemico serve a ciò; spingerlo ad agitare ancora le acque per creare contesti socio-politici ancora più complessi è una piacevole conseguenza. Anche per questo, lo Stato islamico dall’inizio della campagna haftariana su Tripoli ha ripreso molte delle sue attività mediatiche, ha diffuso video di operazioni e discorsi propagandistici, ha condotto attacchi contro l’Lna.

E questo sebbene il nemico che in Libia gli ha arrecato la sconfitta più grossa fossero le forze di Misurata, attualmente l’elemento militare che ha impedito a Haftar di conquistare la capitale. Per i baghdadisti l’Islam politico dei Fratelli è un nemico tanto quanto l’interpretazione saudita del sunnismo, che accusano di essere inquinata dalle collusioni con l’Occidente che hanno tradito lo spirito del Profeta. Non c’è differenza: il presidente Erdogan o Re Salman sono due nemici, Haftar e il premier Serraj lo stesso. Ma i pianificatori dello Stato islamico sanno che da questi scontri interni possono trarre vantaggio e li usano. Colpire Haftar serve a convincere il Feldmaresciallo ad aumentare i suoi sforzi, e dunque a creare più guerra. In Libia, l’Is non è forte come tre o quattro anni fa, quando a Sirte fondò la sua “fiorente” capitale sul Mediterraneo (luogo in cui costruì gli spazi logistici per almeno due attentati in Europa), ma se la guerra civile non cessa ci sono tutti i presupposti per farlo rifiorire.

(Foto: archivio, l’esecuzione dei cristiani copti sulla spiaggia di Sirte con cui nel 2015 l’Is annunciò la propria presenza in Libia)

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