Il 4 ottobre 1957, Radio Mosca annunciò il lancio del primo satellite artificiale, lo Sputnik (in russo “compagno di viaggio”), una piccola sfera metallica che, orbitando intorno alla Terra ad un’altezza di 900 Km, emetteva un semplice bip sonoro. Era la prova che la Russia poteva lanciare ovunque i suoi ordigni nucleari. Negli Stati Uniti ci fu un vero e proprio shock collettivo. Il missile della Marina, Vanguard, della cui affidabilità Wernher von Braun dubitava fortemente, si ritrovò in prima linea a difesa dell’onore del Paese con tutta la pressione dell’opinione pubblica. Gli americani affrettarono i test pur di arrivare a lanciare il Vanguard a dicembre, ma il razzo si distrusse al decollo per un’avaria ai motori ed esplose in una diretta televisiva seguita da milioni di persone. Il fallimento accrebbe lo sconcerto generale al punto che negli americani nacque un sentimento di rivalsa che accompagnò il Paese per tutto il decennio seguente, sino alla rivincita finale dell’Apollo 11. Von Braun ottenne il via libera al suo missile Explorer, una versione modificata del missile Redstone dell’esercito, e non deluse la sua nuova patria. Due mesi dopo lo lanciò con successo mettendo in orbita un satellite con uno strumento del professor James Van Allen, con cui vennero poi scoperte proprio le “fasce” magnetiche che presero il suo nome. Ma come si arrivò a quei lanci? Quale era il contesto geopolitico in cui cominciarono le attività spaziali del XX secolo? Perché fu decisa la “Corsa alla Luna”?
I RAPPORTI TESI
Nel 1945, la situazione del Pianeta era drasticamente cambiata rispetto ai secoli precedenti. La Seconda guerra mondiale aveva ridotto l’Europa, sino a quel momento culla della civiltà e degli Stati-nazione sorti nel XVI secolo, a un campo di rovine attraversato dagli eserciti di due sole potenze vincitrici, la Russia e gli Stati Uniti. Questo duopolio influenzò i successivi 50 anni, e fu combattuto non su un campo di battaglia, bensì su un confronto sociale, politico, economico e industriale, oltreché militare, chiamato Guerra fredda. In quegli anni, la realtà era quella di una continua sfida nucleare e le due superpotenze aspettavano i missili derivati dalle V-2 tedesche per schierare i bombardieri del futuro. Nello sviluppare i missili balistici, le cui tecnologie erano idonee anche per i razzi spaziali, gli Stati Uniti si concentrarono sui missili a media gittata poiché avevano basi in Europa e Turchia vicine alla Russia; solo in un secondo momento puntarono sui più complessi e costosi Icbm intercontinentali, in grado di andare nello Spazio con poche modifiche.
LE DIFFERENZE CON L’UNIONE SOVIETICA
Questa dicotomia strategica fu alla base del primato russo dello Sputnik nel 1957. L’Urss che non disponeva di basi in Paesi vicini agli Stati Uniti, fu obbligata a lanciare dal proprio territorio e i progettisti sovietici non fecero distinzioni tra Icbm e razzi spaziali. E quattro anni dopo, il 12 aprile 1961 lanciarono anche il primo uomo nello spazio, gettando di nuovo Washington in preda a un panico politico e sociale. I successi di Mosca non lasciarono scelta agli americani: la corsa alla Luna andava vinta a tutti i costi altrimenti anche i bombardieri e i sottomarini sarebbero stati inutili. Kennedy chiese ai suoi: “Abbiamo la possibilità di superare i sovietici mandando in orbita un laboratorio spaziale, o affrontando un viaggio intorno alla Luna, o inviando una sonda che atterri sulla superficie Lunare, o lanciando un missile con equipaggio umano fino alla Luna e ritorno? Esiste qualche altro progetto spaziale che offra risultati sensazionali, realizzabile da noi con successo?”.
LA DECISIONE
Von Braun colse il momento per mandare al vice presidente Johnson una lettera: “Possiamo mandare un equipaggio di tre uomini intorno alla Luna prima dei Sovietici, ci si offre la splendida possibilità di superare i russi facendo scendere per primi un equipaggio umano sulla Luna, compresa, naturalmente, la certezza del ritorno”. Johnson ne parlò con Kennedy in un colloquio a quattrocchi. Alla fine della riunione, Edward Welsh, un collaboratore del presidente, disse che “l’America si trovava già a metà strada dalla Luna”. Con un discorso al Congresso, Kennedy annunciò il 25 maggio l’intenzione di superare la “nuova frontiera” e di mandare un americano sulla Luna entro la fine del decennio. Il programma Apollo fu accettato senza riserve sui finanziamenti; la Nasa stimò in 20 miliardi di dollari il costo, ma tutti sapevano che la cifra finale sarebbe stata molto più alta. Welsh commentò che “il timore che i sovietici allargassero la loro sfera d’influenza su tutto il mondo, anche attraverso la conquista della Luna, era reale. Non erano ancora trascorsi i primi 100 giorni della presidenza, e occorreva dare un segno chiaro del promesso dinamismo. Se la maggior parte delle decisioni presidenziali erano prese col parere contrario dell’opposizione, questa fu presa all’unanimità. La decisione di andare sulla Luna aveva il vantaggio di essere sostenuta dall’azione stessa dei russi”.
GLI ASPETTI MILITARI…
Ma c’era anche un altro aspetto, sottovalutato dai più ma ben chiaro al mondo politico, che faceva dell’Apollo un programma strategico. Lo sbarco sulla Luna fu un modo efficace per mantenere impegnata una potente industria aerospaziale che era contraente del Pentagono. Se la motivazione non sembra nobile, occorre considerare che in quegli anni lo scenario internazionale era drammatico e la prospettiva di una guerra nucleare era reale. Se non ci fossero state tali motivazioni geopolitiche, difficilmente qualcuno sarebbe stato mandato sulla Luna. A onore del vero, la Nasa seppe raccogliere la sfida con un sapiente equilibrio tra le varie istanze politiche e scientifiche, e le missioni Apollo 8 e Apollo 11 furono dei veri trionfi.
…E LA PRIMA DIRETTA
La passeggiata lunare di Armstrong e Aldrin fu il primo evento mediatico globale, con oltre 600 milioni di persone ad assistere in diretta televisiva. Da quel momento fu evidente che l’esplorazione spaziale aveva una presa sull’opinione pubblica in grado di orientare politiche nazionali e strategie di lungo periodo. Gli Stati Uniti si ripresero il loro prestigio globale, ma la Nasa realizzò solo altre sei missioni Apollo, di cui cinque raggiunsero il suolo. Infatti, l’interesse mediatico del pubblico crollò quasi del tutto, come se il fascino della Luna fosse stato ormai irrimediabilmente perduto.
COSA CAMBIÒ
La realtà fu molto più prosaica e seguì, come sempre, le ragioni della politica: la decisione di chiudere il programma lunare fu presa già prima dell’Apollo 11 e confermata subito dopo. Il presidente Nixon, mentre parlava al telefono in diretta televisiva con Armstrong e Aldrin sulla Luna, aveva già firmato il taglio del budget della Nasa riducendo le missioni dalle oltre cinquanta previste a sette. Come la costruzione delle Piramidi o della basilica di San Pietro nei tempi antichi, il programma Apollo fu la cattedrale sulla via delle stelle nell’America degli anni Sessanta. Ma lì si fermò, e oggi sia la Nasa, sia le agenzie spaziali mondiali non trovano motivazioni convincenti per far tornare un uomo a passeggiare sulla Luna. Ci vorrebbe una nuova Guerra fredda, ma non se ne vedono, per fortuna, le concrete condizioni nell’attuale contesto geopolitico e tecnologico mondiale. Con buona dose di Realpolitik occorre forse constatare che l’uomo tornerà probabilmente a calpestare il suolo lunare ben in là nel corso di questo secolo.