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Perché Trump e l’Iran devono evitare “i cigni neri”. L’opinione di Pedde

(Seconda parte dell’intervista con Nicola Pedde, esperto internazionale di Iran, sulla crisi Washington-Teheran. La prima parte si può leggere qui)

Ue e Russia, e in parte anche la Cina, stanno lavorando attorno all’accordo sul nucleare iraniano del 2015, il Jcpoa, da cui gli Stati Uniti si sono ritirati l’anno scorso.

È in atto un lavorio politico-diplomatico per disinnescare le tensioni: ma che prospettive ci sono?

Non è facile disinnescare la crisi connessa all’accordo nucleare senza assumere una posizione ferma nei confronti degli Stati Uniti. Questa è una condizione di cui tutti sono consapevoli, Donald Trump per primo, ma che ingessa oggi ogni tentativo autonomo di lavorare con l’Iran.

L’accordo di quattro anni fa è stato firmato dall’Iran e altre controparti (il cosiddetto “5+-“). Facciamo un quadro della situazione di ognuna rispetto all’intesa (salvo gli Usa, che da maggio 2018 ne sono fuori)?

Gli europei hanno messo a punto un sistema di pagamenti protetto, l’Instex, che tuttavia ancora fatica a decollare e che manca della capacità di protezione politica delle aziende che se ne volessero avvalere, di fatto rendendolo del tutto inutile allo stato attuale. Alle tante parole espresse a sostegno della validità del Jcpoa non ha fatto seguito alcuna politica concreta per darne piena attuazione, frustrando enormemente gli iraniani.

I cinesi continuano ad importare quantità ridotte di petrolio, ma devono gestire il loro rapporto con gli Stati Uniti sul piano globale, dando la precedenza alle questioni connesse con gli accordi commerciali bilaterali Cina-USA, preparandosi nel caso a sacrificare – e di molto – il proprio rapporto con l’Iran.

La Russia non è mai stata un vero alleato di Teheran, e buona parte delle politiche russe a favore dell’Iran devono essere lette più come azioni di contrasto agli Stati Uniti che non delle vere e proprie sinergie bilaterali. Sul piano pratico non c’è molto che la Russia possa offrire oggi all’Iran sul piano dell’export petrolifero, che rappresenta la priorità economica del paese.

Una situazione non proprio rosea…

In assenza di una capacità politica degli Europei di definire un quadro relazionale con gli Stati Uniti costruito su basi completamente diverse per risolvere la crisi, così come per i russi ed i cinesi, non credo ci siano molti spazi di manovra per definire soluzioni autonome.

Che fare, allora?

L’unica cosa che reputo fattibile oggi, almeno per gli europei, è quella di rendersi funzionali ai desiderata del presidente Trump. Il ruolo dei paesi dell’Unione potrebbe essere quello di favorire il contesto entro cui permettere al presidente degli Stati Uniti di avere il suo accordo con l’Iran, diramando la matassa dei problemi che l’improvvida strategia della “massima pressione” ha determinato, mettendo di fatto in un vicolo cieco lo stesso Trump.

Certo, non proprio esaltante come ruolo per l’Europa, ma almeno potrebbe disinnescare una crisi di gravissima portata e far ripartire quel volano economico così necessario tanto all’Iran quanto a buona parte dei paesi dell’Unione.

Per fare una previsione ovviamente collegata alla fluidità della situazione, fin dove ci si spingerà, o meglio fin dove ci si può spingere per evitare il conflitto?

È difficile definire i limiti di un contesto di crisi come quello odierno nel Golfo Persico, per molte ragioni.

Il paradosso della situazione è dato innanzitutto dalla volontà di entrambi gli attori di individuare il meccanismo di soluzione del problema. La situazione odierna non ha nulla a che vedere con quella del 2003 con l’Iraq, ad esempio, quando gli Stati Uniti volevano entrare nel paese e far cadere Saddam Hussein, con o senza l’evidenza delle armi di distruzione di massa.

Trump sta adottando una strategia elementare e per nulla sofisticata al solo scopo di riportare l’Iran al tavolo del negoziato, per ottenere un nuovo accordo da presentare come modello di funzionalità per l’interesse nazionale americano, da contrapporsi a quello di Obama, il suo perenne benchmark.

Una strettoia?

Non avendo alcuna conoscenza del suo avversario, tuttavia, non comprende come questa strategia negoziale sia fallimentare proprio perché impedisce all’Iran di accettare quella che, tutto sommato, sarebbe una soluzione che oggi farebbe comodo anche a Tehran.

Trump è quindi in un vicolo cieco, così come l’Iran, e senza una capacità terza di soluzione della crisi con ogni probabilità non sarà facile trovare una via d’uscita.

Una situazione delicatissima che rappresenta il migliore scenario per chi ha interesse a provocare un’escalation. C’è qualcuno interessato a questo?

Quattro attori in particolar modo condividono questo specifico interesse. Il primo è John Bolton, il National Security Advisor del presidente Trump, espressione di un articolato intreccio di interessi che include una parte della chiesa evangelica americana, una parte delle lobby filo-israeliane e un’improbabile gruppo di opposizione iraniano, il MEK (Mujahedin-e Khalq), già sulle liste del terrorismo internazionale e profondamente inviso ad ogni livello sociale a Teheran, soprattutto per aver partecipato alla guerra Iran-Iraq nei ranghi delle forze irachene.

E poi, al di là di questa interpretazione intra-Usa, fuori da Washington?

Il secondo è Benjamin Netanyahu, primo ministro di Israele, che da un’escalation con l’Iran avrebbe molto da guadagnare in termini politici personali, ma che è fortunatamente frenato proprio dal suo apparato della sicurezza e dell’intelligence, che, pur considerando l’Iran una minaccia, non sembra voler aprire il vaso di Pandora di un conflitto regionale.

Il terzo è il crown prince dell’Arabia Saudita, che considera l’Iran una minaccia esistenziale e che vedrebbe di buon occhio un conflitto capace di azzerarne – o quantomeno diminuirne – il potenziale militare. Il problema del crown prince saudita è che un conflitto di questa natura non è in alcun modo gestibile per il proprio apparato militare, già pericolosamente impegnato nella disastrosa guerra in Yemen.

E a Teheran non c’è nessuno che abbia interesse nello scontro?

Il quarto attore è proprio interno all’Iran, ed è identificabile in quel complesso di interessi che ruotano intorno all’industria militare da una parte e al commercio dall’altra. Si tratta di un contesto che ha sempre guardato alle aperture del presidente Rouhani con grande preoccupazione, perché avrebbero determinato il venir meno di quel sistema chiuso ed autoreferenziale che ha permesso la nascita di alcuni veri e propri potentati. Un ambiente, quindi, dove una piccola guerricciola permetterebbe di ristabilire lo status quo del passato e riportare il contesto entro cui condurre i propri affari nella dimensione ottimale.

Ma è un giocare col fuoco delicatissimo…?!

Nessuno di questi quattro attori, tuttavia, ha una chiara percezione del conteso entro cui si muove oggi la crisi del Golfo Persico, ritenendo di poterla gestire senza particolari contraccolpi.

Il risultato di questa intricata situazione è quindi presto detto. I principali attori, Stati Uniti ed Iran, sono impegnati a districarsi dal groviglio di ostacoli che le loro stesse azioni hanno determinato, impedendo di definire quello che è tutto sommato un obiettivo comune: un nuovo negoziato e una soluzione win-win per entrambi.

Uno slalom tra minacce di sistema extra Trump-Teheran?

Le principali minacce provengono tanto dall’interno dei singoli paesi interessati, quanto dal contesto dei loro alleati. La spinta verso l’escalation di alcuni e l’inerzia di altri tutto sommato determina il medesimo contesto di rischio.

In un precario equilibrio determinato da forze contrapposte, quindi, i “cigni neri” di questa delicata situazione sono quelli potenzialmente connessi all’insorgere di un incidente, non voluto e inaspettato, capace tuttavia di generare in breve tempo l’escalation.



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