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Londra e Washington compatte sulla linea anti-Iran

Un’unità di commandos dei Royal Marines inglesi nella notte tra mercoledì e giovedì s’è calata da un elicottero d’assalto sul ponte di un super-tanker al largo di Gibilterra, e, fucili spianati, l’ha messo sotto sequestro. Secondo le informazioni del governo di Londra, la “Grace 1”, nave di proprietà della Grace Tankers con sede a Singapore (ma con gestioni in scatole cinesi che coinvolgono anche la russa Titan Shipping), stava trasportando petrolio iraniano verso la Siria di Bashar el Assad. Un combinato disposto – il regime siriano è sotto sanzioni Ue, l’Iran lo è dagli Stati Uniti – da cui gli inglesi non potevano tirarsi indietro.

IL BLITZ POLITICO

Il blitz ha un valore politico, tant’è che il ministero della Difesa di Sua Maestà ha diffuso le immagini riprese con le telecamere notturne e rilanciate con un’ottica d’alleanza. La Casa Bianca ha definito il sequestro “un’eccellente notizia”, ed è un dossier specifico che si inquadra in quello generale del confronto con l’Iran. Per Washington la massima pressione nei confronti di Teheran – dopo il ritiro dall’accordo per il congelamento del programma nucleare – è sostanzialmente collegata al mondo del petrolio. Obiettivo statunitense è ridurre a zero le esportazioni iraniane, che sono il principale asset economico statale della Repubblica islamica.

Il blocco della Grace 1 è una sovrapposizione perfetta dei due elementi con cui gli americani vogliono strozzare Teheran per portarla a inginocchiarsi a un nuovo tavolo negoziale, in cui mettere nero su bianco non solo la denuclerizzazione, ma anche questioni come il controllo missilistico e le attività di influenza che i Pasdaran giocano nella regione attraverso partiti-milizia come i libanesi Hezbollah o gli alter ego iracheni. Da una parte c’è il contenimento – sanzionatorio e meglio ancora fisico – e dall’altra la compartecipazione al piano degli alleati: niente di più plastico di quei Marines inglesi armi in pugno sul ponte della nave, appunto. Kudos da John Bolton, il falco delle politiche anti-Iran che guida il Consiglio di Sicurezza nazionale della Casa Bianca.

IL RUOLO INGLESE

Tecnicamente Londra è ancora parte del Jcpoa, l’accordo sul nucleare iraniano, e ufficialmente sta lavorando insieme a Bruxelles per tenerlo vivo nonostante l’uscita americana e la reintroduzione della panoplia sanzionatoria, comprese le famigerate sanzioni secondarie, che hanno valore extraterritoriale. Breve inciso sul funzionamento di queste misure: recentemente la PB Tankers, società della famiglia siciliana Barbaro, è stata assolta dopo un’accusa di traffico di petrolio venezuelano verso Cuba che l’aveva fatta inserire nella black list dell’Office of Foreign Assets Control. La società italiana non era colpevole, aveva affittato la nave incriminata alla Cubametals, ma una volta designata dalla Ofac ad aprile si era vista sequestrare tutti i conti americani e chiudere qualsiasi genere di transazione in dollari, nonché l’impossibilità sostanziale di accedere al mercato finanziario perché nessun istituto era disposto ad aprirle linee di credito anche in altra valuta per non rischiare di subire multe e ritorsioni da Washington. Anche perché non si scherza, per vicende collegate alle violazioni con Myanmar, Cuba, Iran, Libia, Sudan e Siria di una controllata, l’Unicredit non più tardi di aprile ha chiuso un patteggiamento da 1,3 miliardi con Tesoro, Giustizia e Fed (a Deutsche Bank nel 2015 andò molto peggio). Fine dell’inciso.

Al di là del lavoro con l’Ue, l’azione contro la petroliera diretta in Siria è per gli inglesi l’occasione di confermare a Washington il pieno commitment sul dossier iraniano, sfruttando lo scenario incontestabile delle violazioni delle sanzioni europee imposte su Assad. L’impegno al fianco degli Usa è un elemento che in tempo di Brexit e di Donald Trump non è da sottovalutare. Londra ha bisogno di costruirsi un nuovo ruolo, anche nei confronti di Bruxelles, Trump ha offerto al Regno Unito una nuova stagione di Special Relationship, ma – come trumpismo vuole – a patto di un pieno allineamento. Ed è per questo che, per esempio, gli inglesi sono stati i primi ad accettare le ricostruzioni americane sul coinvolgimento iraniano dietro ai sabotaggi alle petroliere lungo lo Stretto di Hormuz, dove tra poco partiranno pattugliamenti congiunti dei traffici. Non c’erano prove sostanziali fornite dagli Usa, ma Londra ha raccolto comunque senza troppe riserve.

LA REAZIONE DELL’IRAN

L’Iran non ci sta: il cargo bloccato con due milioni di barili a bordo ha un costo di demurrage enorme, ma lo scotto politico è ancora più pesante. È una testimonianza che nemmeno le attività sotto traccia possono più funzionare – quelle con cui mantiene attivo l’export verso un alleato fidato, che tra l’altro soffre: Damasco riesce a coprire solo il 24 per cento del fabbisogno energetico. E peggio ancora se gli alleati americani stringono la cinghia come vuole Washington. “Dopo l’intercettazione illegale di una petroliera iraniana nello stretto di Gibilterra da parte delle forze navali inglesi, l’ambasciatore di quel Paese a Teheran è stato convocato”, ha fatto sapere il ministero degli Esteri iraniano. Proteste formali, ma la nave per ora resta ancorata quattro chilometri a largo del territorio britannico d’oltremare. “Abbiamo ragione di credere che la Grace 1 stesse trasportando la sua spedizione di petrolio greggio alla raffineria di Banyas in Siria”, ha dichiarato in una nota il capo del governo di Gibilterra, Fabian Picardo. Mentre il ministro degli Esteri spagnolo, Josep Borrell, nuovo Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, ha detto ai giornalisti che la nave è stata arrestata su richiesta degli Stati Uniti – una dichiarazione che fa segnare un’iniziale continuità sul marcare le distanze Washington-Bruxelles sul dossier Iran.

MISTERO ALLA RAFFINERIA SIRIANA

La raffineria di Banyas si trova sulla costa mediterranea siriana in un’area iper controllata, una quarantina di chilometri a sud c’è la base navale russa di Tartus e a nord quella aerea di Latakia. È di proprietà dallo Stato ed è posta sotto sanzioni dall’Ue. Il 22 giugno la raffineria è stata luogo di un fatto misterioso: mentre un’altra petroliera iraniana, la “Stark I” (che il 12 maggio aveva caricato greggio sull’isola di Larak, distributore iraniano davanti a Hormuz, e poi ha risalito Suez col trasponder spento) era in fase di scarico, le condotte sottomarine che collegano il terminal siriano alle navi si sono rotte. Secondo le dichiarazioni dei funzionari locali si è trattato di un sabotaggio: ordigni esplosivi hanno spaccato le tubazioni e prodotto uno sversamento in mare del petrolio. Un’operazione che il vice capo della compagnia siriana per il trasporto del petrolio ha definito “professionale”. La rottura delle condotte ha prodotto un danno che ha portato la raffineria a bloccare le attività per diversi giorni successivi. Non ci sono colpevoli, e come nel caso delle petroliere colpite davanti all’Oman e agli Emirati, si tratta di missioni a plausible deniability. In quelle zone ci sono incursori di diversi attori in grado di compiere certe operazioni.

(Foto: UK MoD, via Twitter, @LarissaBrown)


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