Il Servizio sanitario Nazionale italiano, che fa dell’universalità uno dei suoi elementi pregnanti, rappresenta un esempio virtuoso per i “vicini” europei. Purtroppo, oggi, non sempre quell’universalità sembra rispettata appieno. Spesso, infatti, nonostante le nuove tecnologie offrano opportunità straordinarie – dal campo della diagnostica a quello delle cure – per via di una mancanza di risorse o di una errata allocazione delle stesse, non possono essere destinate a tutti i malati, andando a creare un sistema che, inevitabilmente, divide i pazienti fra cittadini di serie A e cittadini di serie B. Ne abbiamo parlato con Walter Ricciardi, già presidente dell’Istituto superiore di sanità e attualmente direttore del dipartimento di Scienze della salute della donna, del bambino e di sanità pubblica della Fondazione Policlinico Gemelli, in occasione del progetto “In scienza e coscienza”, nato dalla collaborazione fra Fondazione Roche e Formiche con l’obiettivo di interrogarsi – e interrogarci – sul dibattito in merito alla libertà prescrittiva del medico e ai vincoli economici imposti dalla limitatezza delle risorse e dalla necessità di Regioni e aziende ospedaliere di gestire il contenimento della spesa sanitaria: come bilanciare le migliori cure con la sostenibilità finanziaria?
Come conciliare la libertà prescrittiva del medico e i vincoli del Servizio sanitario nazionale e dei payers? Secondo lei, negli ultimi anni, non c’è stato uno sbilanciamento a favore di questi ultimi rispetto alla libertà prescrittiva del medico, che invece dovrebbe essere prioritaria?
Non c’è alcun dubbio. C’è uno squilibrio causato dalla mancanza di capacità della classe medica di autoregolarsi e di impostare i propri sistemi di valutazione e controllo su trasparenza ed evidenza scientifica. I medici italiani sono tra i migliori al mondo e vantano un altissimo livello di formazione e ottime capacità di resilienza, ma la variabilità delle prestazioni e, in alcuni casi, anche la mancanza di trasparenza hanno portato le autorità sanitarie a essere diffidenti e a usare sistemi di controllo basati prevalentemente su criteri economici e non sanitari.
Come si esce da questa impasse?
Con un compromesso fra entrambe le parti: medici più trasparenti, attraverso anche sistemi di autovalutazione e controllo che garantiscano trasparenza e accountability, e amministrazioni sanitarie più aperte e predisposte a riconoscere al medico un ruolo più centrale.
La disponibilità di farmaci innovativi è in costante aumento, ma i costi sono spesso proibitivi. Quali sono le priorità e quale il bilanciamento auspicabile? I vincoli di budget non stanno minacciando quel criterio di universalità che vanta il nostro sistema?
L’unica possibilità che abbiamo per garantire ai pazienti l’innovazione disponibile è premiare quell’innovazione che porta valore aggiunto per tutti, dai pazienti ai professionisti fino ai decisori. Per fare questo deve cambiare il sistema di regolazione, ad oggi insufficiente. Una volta fatto accesso al mercato, la scelta delle migliori prestazioni deve essere fatta dai medici, con meccanismi non arbitrari ma secondo un sistema di pratica clinica e di linee-guida improntate su trasparenza e accountability.
Ma lei crede che oggi le risorse siano insufficienti, o sono invece distribuite male? E contro chi punterebbe il dito?
In questo momento in Italia le risorse sono assolutamente insufficienti. Noi rappresentiamo il primo dei Paesi poveri per allocazione di risorse sanitarie: il nostro Paese ha tagliato moltissimo, a partire dagli stipendi e a finire con la mancanza di accesso ai servizi,soprattutto in alcune regioni. Ovviamente un eventuale investimento aggiuntivo andrebbe monitorato, ma per cercare di elaborare un sistema efficace ed efficiente servono delle regole.
E chi ha mancato nel definire queste regole?
Ad oggi la governance del Servizio sanitario nazionale è talmente disomogenea che non si può dare un’unica risposta. Sicuramente c’è stata una debolezza da parte delle strutture centrali nel cercare di sostenere le strutture periferiche, regioni in difficoltà in primis. Ma non tutta la colpa può essere data alle istituzioni. È la stessa Costituzione, infatti, a dare competenza esclusiva alle regioni, per cui ministero, Iss, Agenas e Aifa possono fare poco. Questo sistema, però, ha però condannato 30 milioni di italiani, quelli che vivono al centro-sud, ad avere una sanità di serie c, a meno che non si disponga di denaro sufficiente per rivolgersi a strutture private. Ora bisogna solo capire se questo sistema lo si vuole salvare, e tutelare, o se invece vogliamo accettare pacificamente un sistema misto, ove si garantisce una salute “povera” per i “poveri” e una “ricca” per i “ricchi”.
Parliamo ora più nel dettaglio di medicina di precisione. Cosa dovrebbe fare un medico qualora vi fossero cure disponibili, ma queste ultime non fossero disponibili o rimborsate dal SSN?
Il medico è sempre tenuto ad assegnare, in scienza e coscienza, la terapia più appropriata disponibile, mettendo anche da parte, quando necessario, i vincoli che derivano dal bilancio. Ovviamente questo risulta difficile da realizzare in Regioni che stanno attuando un piano di rientro o un contenimento dei costi, dove non solo non si riescono a fornire nuove terapie, ma spesso è difficile reperire anche le vecchie e dove piuttosto che personalizzare la cura la si disumanizza. È una battaglia che si combatte in alcune regioni più che in altre, ma che va affrontata.
E per quanto riguarda gli strumenti di diagnosi?
La tecnologia oggi offre potenzialità infinite. Basti pensare che abbiamo la possibilità di sequenziare il genoma umano con soli 300 euro, consentendo così di individuare per ogni persona la cura più conforme adessa. Eppure questo in alcune regioni sembra ancora fantascienza. Senza tenere conto, tra l’altro, che un utilizzo efficiente degli strumenti di diagnosi può generare ampi risparmi sull’intero sistema sanitario nazionale.
Parliamo ora di big data. Sappiamo che questi possono rappresentare un’interessante frontiera per il Servizio sanitario nazionale e, non da ultimo, generare un circolo virtuoso di cui possono beneficiare anche i pazienti. Quali sono però i rischi e quali i limiti oltre cui non andare?
Le opportunità sono enormi, mentre il rischio più grandeè certamente legato alla privacy, con il pericolo che i dati siano utilizzati anche per scopi non esattamente positivi per il paziente ma a fini commerciali. Eppure molti Paesi, con mentalità meno burocratiche della nostra, si stanno organizzando per godere delle opportunità proteggendosi dai rischi. Questo ovviamente non vale per l’Italia, che ha purtroppo una PA indietro anni luce.
Abbiamo assistito a un deterioramento del rapporto fra medico e paziente, con una diminuzione della fiducia da parte dei malati nei confronti deglioperatori sanitari. Perché? E quanta responsabilità possiamo dare ai medici e quanta, invece, alle istituzioni?
Anche in questo caso la responsabilità va distribuita. I medici, loro malgrado, hanno sempre meno tempo dadedicare ai pazienti perché oberati da carichi di lavoroinsopportabili che impongono loro di vedere sempre più pazienti, sacrificando la qualità per la quantità. Inoltre, l’obbligo di registrare le prestazioni costringe il medico a tenere gli occhi sempre più tempo sullo schermo del pc e sempre meno sul paziente.
Quali sfide, dunque, per il futuro nel nostro SSN?
Oggi siamo a un momento di svolta. Se non iniziamo alavorare tutti insieme, politici, manager, medici e pazienti, corriamo il rischio di ritrovarci con un sistema universalistico sulla carta e un sistema all’americana sulla pratica, con un diritto alla salute garantito solo a chi ha la disponibilità economica per stipulare un’assicurazione privata.
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