In Siria orientale ci sono evoluzioni interessanti, ed è un’area da tenere d’occhio perché è quella in cui gli americani vorrebbero coinvolgere forze armate alleate in funzione di sostituzione alle forze speciali Usa che svolgono lì un ruolo ufficiale di anti-terrorismo. Ma è anche, come è stata la Siria per molte altre questioni, un terreno colturale per sviluppi più ampi.
Quelli di cui si parla sono i territori in cui lo Stato islamico aveva piazzato la propria dominazione statuale, distrutta dall’azione della Coalizione internazionale a guida americana in coordinamento ibrido con le milizie curdo-arabe locali; sebbene l’Is sia ancora una minaccia latente, clandestina. Sono anche le aree dove si trovano le risorse energetiche siriane, e per questo sono guardate con particolare interesse dagli attori in campo, in quanto avranno un peso sul futuro della Siria. Sono zone, in più, dove la Turchia allunga l’occhio, perché sa che quelle risorse potrebbero essere un bene prezioso per le ambizioni autonomiste curde, che sarebbero un pericoloso presupposto per i cugini curdo-turchi.
In questo complicato snodo si inserisce una fase di incertezza tra alleati, con Russia e regime siriano da un lato, Iran e milizie sciite — in particolare Hezbollah — dall’altro. Il tema è il controllo del territorio e sullo sfondo sta il differente approccio con cui Mosca e Teheran hanno interpretato il coinvolgimento siriano. I primi hanno una visione più pragmatica, puntano a crearsi un’exclave di influenza in mezzo al Medio Oriente e con affaccio sul nevralgico quadrante orientale del Mediterraneo; gli altri ne danno una lettura più ideologizzata, e d’altronde è grazie a questa che hanno coinvolto i gruppi estremisti sciiti alleati. Teheran dalla Siria pensa alla destabilizzazione israeliana, per esempio, e per tale ragione foraggia Hezbollah (in guerra con lo stato ebraico dal 2016) di armi tecnologicamente più avanzate; oppure mira al contenimento saudita nella regione.
La maggior parte delle informazioni sullo scricchiolare dell’alleanza che ha salvato il regime siriano esce da media vicini al regime stesso, noti per diffondere informazioni alterate propedeutiche alla propaganda. Ed è anche per questo che diventano interessanti. Da Damasco si sottolineano divisioni tra gli alleati che hanno puntellato il regime e non è un dettaglio, perché quella che è già iniziata — adesso che Bashar el Assad ha vinto la guerra e ripreso la Siria — è la delicatissima fase post-bellica, della ricostruzione e della ripartizione delle potenzialità del paese. Spazio in cui, come gli otto anni di guerra hanno insegnato, questioni locali potrebbero facilmente spostarsi su piani internazionali.
La Russia, per esempio, sembra temere che le pretese di Iran e Hezbollah sulla Siria attirino troppo le attenzioni di Israele, che mantiene un profilo distaccato, colpisce scambi di armi tra Pasdaran e libanesi, ma gioca un ruolo finora discreto sul futuro del paese anche perché ha ricevuto garanzie da Mosca. I contatti tra russi e israeliani sono continui, per esempio l’8 luglio il presidente Vladimir Putin ha avuto una conversazione telefonica con il primo ministro Benjamin Netanyahu e secondo i readout resi pubblici il tema centrale è stata proprio la cooperazione sulla Siria.
Durante un summit trilaterale a Gerusalemme il mese scorso (partecipanti: il consigliere per la Sicurezza nazionale Usa, John Bolton, il collega israeliano, Meir Ben-Shabbat, e quello russo, Nikolai Patrushev) Stati Uniti e Israele hanno detto alla Russia che qualsiasi accordo sul futuro della Siria deve includere un ritiro militare iraniano non solo dal paese, ma anche dal Libano e dall’Iraq. Ne ha parlato il sempre informatissimo giornalista israeliano Barak Ravid di Axios. Israele e l’amministrazione Trump temono che un accordo futuro in Siria possa esportare il problema iraniano in Iraq e Libano. All’opposto, i russi stanno cercando un accordo con Stati Uniti e Israele per la stabilizzazione del regime di Assad e sperano anche che gli americani incoraggino i paesi occidentali a contribuire alla ricostruzione della Siria. Per Washington e Gerusalemme il ritiro delle forze iraniane dalla Siria è un prerequisito per qualsiasi intesa.
Secondo il punto di vista degli americani spetta ai russi il primo passo con(tro) l’Iran, ma per il momento da Mosca sono partite solo rassicurazioni pubbliche verso Teheran. Sebbene segnali ci siano, da quegli articoli dei media pro-regime siriano a determinate posture. Per esempio, la Russia si tiene anche abbastanza in disparte sull’altro grande dossier mediorientale del momento, quello del confronto Usa-Iran nel Golfo. La Russia è in una fase di intesa sul petrolio con l’Arabia Saudita, che considera l’Iran un nemico geopolitico (e ideologico). Il sistema Opec+ guidato da Mosca e Riad ha deciso di tagliare le produzioni per tenere i prezzi alti. L’Iran ha apertamente contestato la decisione e il metodo con cui è stata raggiunta (un incontro bilaterale Russia-Arabia Saudita al G20 che ha pratica reso la riunione Opec una formalità). Il petrolio iraniano è martoriato dalle sanzioni Usa e le petroliere sono fisicamente al centro della contesa nel Golfo.
(Foto: Twitter, @AmbBolton, una foto del trilaterale Usa-Russia-Israele, 28 giugno 2019)