Ricerca, prevenzione e diagnostica sono temi molto importanti, sia per la sanità, sia per l’economia nazionale. Spesso, infatti, una corretta prevenzione o un uso efficace degli strumenti diagnostici, entrambi garantiti dalla ricerca, consentirebbero non solo di salvare la vita di molte persone, ma anche di risparmiare un’ampia fetta di risorse. Ne abbiamo parlato con Dario Manfellotto, direttore di medicina interna e del dipartimento delle Discipline mediche all’ospedale Fatebenefratelli presso l’Isola Tiberina Roma e presidente nazionale eletto della Fadoi, in occasione del progetto “In scienza e coscienza”, nato dalla collaborazione fra Fondazione Roche e Formiche con l’obiettivo di interrogarsi – e interrogarci – sul dibattito in merito alla libertà prescrittiva del medico e ai vincoli economici imposti dalla limitatezza delle risorse e dalla necessità di Regioni e aziende ospedaliere di gestire il contenimento della spesa sanitaria: come bilanciare le migliori cure con la sostenibilità finanziaria?
Sappiamo che negli ultimi anni la ricerca indipendente ha registrato una notevole riduzione degli investimenti. Ma cos’è la ricerca indipendente e perché è così importante tutelarla?
Quando si parla di ricerca indipendente si intende una ricerca che sia libera da interventi commerciali o da parte di eventuali sponsor. Ma io, personalmente, ritengo che qualunque ricerca, se condotta in modo serio e corretto, anche se finanziata da un’azienda, possa valutare ogni risultato e in particolare gli effetti di un farmaco, con criteri rigorosi, scientificamente validi e con onestà intellettuale.
In Italia è una cosa che accade di frequente, del resto…
Sì, e ritengo tra l’altro che le aziende farmaceutiche abbiano svolto un ruolo fondamentale, supportando spesso la mancanza di finanziamenti per la ricerca da parte dello Stato, del ministero o dell’Aifa. È anche grazie a loro che l’Italia può vantare una ricerca particolarmente avanzata, oltre che ricercatori fra i primi al mondo. È chiaro, certo, che la ricerca indipendente rimane di primaria importanza. Ad esempio, la mia società scientifica, la Fadoi, ha prodotto un documento – pubblicato nel novembre 2018 – con una serie di raccomandazioni e di indicazioni che vogliono rendere la ricerca indipendente meglio organizzata e altamente produttiva. Si tratta di raccomandazioni ampiamente condivise di cui si è tenuto conto anche a livello istituzionale. Cito, ad esempio, il Decreto Lorenzin sulla ricerca, che ha dato voce almeno in parte alle richieste del mondo dei ricercatori.
E quali sono le richieste dei ricercatori? Di cosa ha bisogno, insomma, la ricerca indipendente?
Per esempio di una griglia di requisiti per l’idoneità dei centri di ricerca che venga valutata e condivisa a livello nazionale affinché tutti i centri garantiscano un livello minimo di qualità, o che la ricerca clinica rientri fra gli strumenti di valutazione dell’operato di una struttura o, ancora, l’inserimento della figura del ricercatore negli ospedali. Ma ancora più importante è che si garantisca alla ricerca no profit una quota fissa minima di investimento, e una maggiore collaborazione fra pubblico e privato per la ricerca.
Perché queste cose non avvengono, oggi?
Perché la ricerca viene ancora considerata una spesa e non un investimento. Basti pensare alle aziende private, quasi tutte dotate di una struttura di ricerca e sviluppo perché sanno che dalla ricerca nascono grandi profitti. Purtroppo il nostro Sistema sanitario non lo capisce, non riesce a coglierlo. È vero che l’Italia ha grossi problemi economici, ma bisogna essere anche capaci di fare un’analisi dei costi che guardi non solo il breve periodo, ma anche le ricadute nel medio e lungo termine.
E perché i dirigenti delle strutture sanitarie non cercano di smuovere questo sistema?
Perché i direttori generali sono costretti a prendere in mano bilanci negativi e a portarli al pareggio. E per farlo sono costretti a tagliare i costi, dal personale ai farmaci. A nessun direttore verrebbe mai in mente di investire, per esempio, 200mila euro l’anno per la ricerca, poiché le ricadute positive sarebbero successive al suo mandato, e il suo operato, con i criteri di valutazione attuali, sembrerebbe inefficiente. È lo stesso discorso che facciamo da anni per la prevenzione: si guardano i costi, ma non si guardano i risparmi che genera. Nel documento della Fadoi abbiamo chiesto che l’attività di ricerca venga invece inserita fra i criteri di valutazione dell’operato di un direttore generale.
Quindi fra i più grandi deficit del nostro sistema possiamo citare l’assenza di lungimiranza?
Ovvio, è il sistema a essere sbagliato. Per questo lo Stato dovrebbe inserire in forma obbligatoria nella spesa sanitaria una soglia minima (almeno l’1%, ma auspicabilmente il 3%, come chiede la Fadoi) da destinare alla ricerca.
Passiamo ora ai Patient Reported Outcomes (PROs), che hanno una notevole portata innovativa quale strumento di rilevazione. Le indicazioni in essi contenute, infatti, danno la misura di ciò che è maggiormente rilevante per il benessere dei pazienti. Quali sono gli ostacoli e quali misure andrebbero adottate per superarli, data la difficile catalogabilità e misurabilità di dati soggettivi? Come possono intervenire le strutture sanitarie in tal senso?
Purtroppo il problema è proprio quello della misura della soggettività, del vissuto del paziente. Bisogna però mettercisi di impegno, come stanno facendo oggi diverse associazioni, e studiare un metodo che risulti efficace. Questo risulterebbe utile e importante, sia per i pazienti, sia per l’efficacia e l’efficienza del nostro Sistema sanitario, che attraverso l’esperienza specifica del singolo paziente, può apprendere importanti informazioni per i malati a venire. È ovvio che gli strumenti di valutazione prettamente analitici degli studi clinici garantiscono una risposta più immediata e meno costosa a livello di tempo e di costo, ma non saranno mai in grado di fornire le preziose informazioni che invece possono garantire i PROs.
Parliamo ora di condotta del medico: quale comportamento è auspicato nel caso in cui gli strumenti di diagnosi siano sofisticati, ma le cure possibili non siano disponibili o rimborsate dal SSN? Qual è il ruolo che deve e può giocare il medico in questi casi e quale invece per le aziende ospedaliere?
Questo purtroppo è un argomento molto complesso, perché vede coinvolta una serie di elementi, tanto eterogenei quanto importanti, che vanno dalla deontologia professionale all’economia sanitaria, dalla cultura all’esperienza individuale del medico, dall’etica alla bioetica. La prima valutazione da fare è legata all’etica distributiva, secondo cui in caso di risorse limitate queste ultime vanno destinate sì a chi ne ha più bisogno, ma soprattutto a chi può ottenerne il maggior risultato possibile.
Ovvero?
Il dilemma è sempre quello di saper trovare l’equilibrio fra qualità delle cure, umanizzazione, sostenibilità, prosecuzione o desistenza terapeutica e non accanimento. Bisogna chiedersi se è giusto destinare risorse e denaro a un paziente che ha purtroppo una prognosi infausta e in tempi brevi, indipendentemente dalla cura che gli si prescrive. Bisogna trovare il coraggio di destinare quelle risorse a chi invece può ottenerne un risultato. Negli Usa e anche in Gran Bretagna, ad esempio, la dialisi non viene fatta a tutti i pazienti, soprattutto quelli più anziani, perché si fa una valutazione fra costi e aspettativa di vita. Questo in Italia in genere non succede, perché si ha un atteggiamento più umano e compassionevole delle terapie, e a mio avviso più corretto e ragionevole, soprattutto nel campo oncologico.
Ma un uso più proficiente, e selettivo, delle risorse non lede i criteri di universalità e di equità del SSN?
No, perché se ci sono indicazioni per un determinato trattamento questo viene applicato. Nonostante tutte le difficoltà, nel nostro Paese il SSN permette che se un farmaco molto costoso trova indicazione in un paziente, viene comunque prescritto. Però se si deve acquistare questo stesso farmaco per un paziente che purtroppo non ha possibilità di guarigione, allora il sistema non può permetterselo e dobbiamo ragionare con serenità. Sono riflessioni quotidiane, molto difficili e complesse, di fronte alle quali ci troviamo spesso. La risposta può venire soltanto da una buona relazione con il malato e con i familiari, da una comunicazione medico-paziente ben condotta sulle scelte più appropriate. A questo proposito mi piace sottolineare che la legge 219 del 2017, sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, recita chiaramente che “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”. Ogni componente di una equipe medica deve quindi dedicarsi a comunicare e non è un problema banale. La tecnica di comunicazione nasce sicuramente dall’esperienza, ma non basta. Deve essere insegnata nelle scuole di medicina e di tutte le professioni sanitarie, come elemento fondamentale delle competenze personali. Un’esigenza formativa non differibile.
Parliamo ora di innovazione della cura e sostenibilità finanziaria: quale priorità e quale bilanciamento possibile?
Giriamo sempre intorno al solito problema. È chiaro che la sostenibilità deve tener conto della realtà ed è inutile cercare di fare cose obiettivamente irrealizzabili. Non possiamo e non dobbiamo sostenere progetti che rischiano di far crollare il sistema. Come ho già detto, il bilanciamento passa per una consolidata struttura di ricerca e sviluppo, e quindi per uno standard minimo di innovazione che lo Stato deve prevedere in maniera rigorosa e necessaria. Urge che alcuni fondi siano destinati alla ricerca, altrimenti dovremo sempre fare ricorso al finanziamento delle case farmaceutiche, che alcuni demonizzano, ma grazie alle quali oggi il nostro sistema della ricerca non è ancora imploso.
Quali altre urgenze crede che ci siano nella sanità?
Sicuramente quello di una medicina che cura molto bene ma non riesce a guarire tutti. Così i malati cronici invecchiano e hanno sempre più bisogno di assistenza e di cure. Racconto sempre a tal proposito la parabola della sindrome di Titone, il bellissimo figlio del re di Troia che fece innamorare di sé Eos, dea dell’aurora. La dea chiese a Giove di donare al giovane l’immortalità per poterlo sposare e fu esaudita. Ma Eos aveva fatto l’errore di non chiedere anche l’eterna giovinezza e condannò così Titone a invecchiare senza poter morire, sempre più malato e disabile, mentre Eos ogni mattina risorgeva giovane e bellissima. Il mito è una metafora della medicina moderna, poiché le nuove cure e le tecnologie allungano la vita, prolungando però la vecchiaia. dobbiamo quindi ancora imparare, per poter rendere la vecchiaia migliore, e predisporre un fine vita dignitoso e umano. Questa tematica è stata affrontata con un’ottima legge, la 38 del 2010. Ma il maggior numero di pazienti gravi finiscono i loro giorni assistiti, devo dire molto bene, nei reparti di medicina interna dei nostri ospedali. Proprio per questo motivo la Fadoi ha istituito la giornata del fine vita, che ogni anno, il 6 aprile, riunisce medici, infermieri, religiosi, politici, eticisti, filosofi, per discutere insieme su questo tema fondamentale.
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