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Golfo caldissimo. La guerra delle petroliere, mentre tornano gli americani in Arabia Saudita

La “Stena Impero” è ferma, sotto sequestro, al porto iraniano di Bandar Abbas, scalo principale sullo Stretto di Hormuz. Ieri sera i Pasdaran hanno deviato la rotta della petroliera inglese mentre risaliva il Golfo diretta in Arabia Saudita. L’hanno fermata perché avrebbe eseguito manovre marittime non sicure, alcuni media — come Sepahnews (vicini all’ala teocratica interna all’Iran) — sostengono che sia stata protagonista di un incidente con un peschereccio, per questo sarebbero subito intervenuti i militari iraniani. Ora c’è un’inchiesta, ma intanto la nave resta bloccata, al centro di una crisi diplomatica armata. L’equipaggio (nessun inglese) è  chiuso a bordo da ieri notte e non ha più il controllo della nave, dice una dichiarazione diffusa all’armatore stamattina.

L’incidente potrebbe essere un pretesto? Possibile, ma intanto stamattina il Foreign Office è stato costretto a rilasciare una dichiarazione in cui avvisa le navi inglesi di stare fuori dallo Stretto di Hormuz “ad interim” — “La nostra risposta sarà considerata solida e ci saranno gravi conseguenze se la situazione non verrà risolta”. Il problema è reale. Il Regno Unito ha tre unità navali integrate nell’operazione Sentinel, ossia nella coalizione in costruzione che Washington vorrebbe operativa per scortare i traffici nel Golfo.

Londra è il Paese che più di tutti s’è allineato alle richieste degli Stati Uniti, che dopo che il confronto con l’Iran s’è trasformato in una guerra di nervi con le petroliere fisicamente al centro dello scacchiere, hanno chiesto maggior coinvolgimento ai paesi partner (e gli inglesi hanno tutto l’interesse a essere della partita, perché hanno link energetici nell’area, e vogliono strutturare quelli politici con l’amministrazione Trump come àncora post-Brexit). Se non altro, la vicenda della Stena ci dice che nonostante la presenza militare rafforzata nel Golfo, gli iraniani hanno un’agilità tattica superiore. Il raid marittimo ha permesso ai Pasdaran di sequestrare la nave prima che i tracciamenti satellitari, le navi, i droni di Sentinel se ne accorgessero — ossia ha permesso che si materializzasse di nuovo, dopo i sabotaggi ai tanker di maggio e giugno, il peggior scenario di scontro per l’area previsto da tutti i pianificatori militari, quello che mette le petroliere a rischio azioni e ritorsioni.

Ci sono almeno due ragioni per credere che l’operazioni dei Guardiani khomeinisti sia stata un atto simbolico, ergo politico, più che poliziesco. Primo, poche ore prima, il governo locale di Gibilterra, inglese, aveva deciso di prolungare fino al 15 agosto il fermo della “Grace 1”, nave-cisterna iraniana che i Royal Marines inglesi avevano bloccato con un blitz spettacolarizzato sotto l’accusa di trasportare petrolio dall’Iran alla Siria in violazione delle sanzioni Ue. Teheran aveva promesso una ritorsione, e i barchini rapidi con cui si muovono i Pasdaran tra le rotte scomode dello stretto si erano già presentati davanti a una petroliera inglese giorni fa. In quell’occasione una delle fregate di inglesi presenti nel Golfo era intervenuta in tempo e gli iraniani avevano rinunciato all’azione davanti alla dissuasione dei cannoni di Sua Maestà. Per la Stena sono stati più rapidi.

La seconda delle ragioni è più ampia e raffinata. Ieri il CentCom del Pentagono ha annunciato che soldati americani torneranno in Arabia Saudita, e l’agenzia stampa del regno, la SPA, ha rilanciato che il dispiegamento è stato deciso “su invito” di Re Salman. Tutto confezionato appena concluso l’incontro, a Riad, tra il generale alla guida del comando regionale Usa e quello saudita che coordina la coalizione che combatte i ribelli in Yemen. Un raggruppamento militare che ha anche un forte sapore politico, in cui l’erede al trono saudita ha poggiato le basi della sua assertività regionale, con un forte accento anti-Iran, e che simbolicamente dal 2015 viene considerato il prototipo di quella che Washington vorrebbe diventasse la cosiddetta “Nato Araba” a cui affidare la gestione della futura architettura di sicurezza nella regione mediorientale. Qualcosa di cui l’Iran non è parte, anzi è avversaria.

I soldati americani in Arabia Saudita serviranno “per aumentare il livello di azione comune a difesa della regione e la sua stabilità” dice casa Saud, e rappresentano un passaggio storico nel rinnovato feeling Usa-Ksa. Cinquecento militari americani rientreranno rapidamente alla Prince Sultan Air Base, nell’area desertica a est di Riad; alcuni sono già sul posto in via più discreta da metà giugno, hanno portato batterie anti-aeree Patriot e logistica con cui preparare le piste per ospitare, rumors, anche i Raptor, i più tecnologici cacciabombardieri stealth americani. Sono partiti per ordine del Commander-in-Chief senza notifiche preliminari al Congresso (che ultimamente ha preso posizioni non proprio favorevoli ai collegamenti militari coi sauditi).

Gli americani avevano spostato ufficialmente le truppe dalla base Prince Sultan al nuovo hub qatarino del CentCom ad aprile del 2003, quando iniziò l’invasione in Iraq. Bloccare la Stena il giorno in cui il rientro saudita americano viene reso pubblico è anche un gesto simbolico per i Pasdaran, che a Riad hanno i contender ideologici e soprattutto geopolitici principali. Un segnale muscolare in questo confronto di psicologico in cui tutti dicono di non volere un conflitto.

 


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