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Teheran tenta di chiudere Hormuz agli inglesi. L’ultimo smacco all’Occidente

Tre navi militari iraniane hanno tentato di bloccare una petroliera inglese che attraversa lo stretto di Hormuz. Solo l’intervento della Royal Navy è riuscito a costringerle ad allontanarsi, ma le tensioni tra Teheran e Londra, accentuate dal sequestro della petroliera iraniana da parte dei British Royal Marines, non sembrano cessare.

COSA SUCCEDE TRA IRAN E GRAN BRETAGNA

È passata solo una settimana da quando la Gran Bretagna ha sequestrato una petroliera iraniana diretta in Siria che stava agendo in violazione delle sanzioni. Rouhani aveva permesso una “vendetta”, che non ha esitato ad arrivare, quando la British Heritage è stata avvicinata da tre imbarcazioni dell’Irgc. La nave HMS Montrose, della Royal Navy, sarebbe stata poi costretta a posizionarsi tra le navi iraniane e la petroliera, costringendo le tre imbarcazioni locali ad allontanarsi. L’Iran sembra ormai aver perso qualsiasi volontà di dialogo con gli Stati Uniti e l’Europa, anzi le continue provocazioni verso Washington, primo su tutti il recente abbattimento del drone statunitense, a cui non è seguita un’azione militare americana, assieme alla ripresa dell’arricchimento dell’Uranio in violazione dell’accordo Jcpoa ancora in vigore, ne sono esempi. Lo stesso Trump, dopo aver chiamato un attacco aereo interrotto solo pochi minuti prima della partenza, aveva dato un segnale di distensione, che evidentemente non è stato colto. Gli alleati europei non sono mai stati d’accordo con la decisione di Trump di abbandonare l’accordo nucleare e di riprendere l’avvio delle sanzioni, ma di fronte all’evidenza è difficile continuare a tacere. Le sanzioni statunitensi hanno effettivamente costretto l’Iran ad allontanarsi dai mercati petroliferi tradizionali, privandolo della sua principale fonte di reddito e costringendolo a vendere in Paesi colpiti dalle sanzioni europee (la Siria, ad esempio, motivo per cui la petroliera di Teheran è stata sequestrata mentre tentava di passare da Gibilterra). Nessun commento alle vicende è pervenuto dall’Oman, che pure ospita una base militare britannica e condivide lo stretto con l’Iran. Se l’attacco iraniano alla petroliera britannica fosse confermato si tratterebbe di una grave violazione della legge internazionale e del diritto del mare, come rimarcato dal portavoce ufficiale del Primo ministro britannico Theresa May.

GEOPOLITICA DI HORMUZ

Lo stretto di Hormuz, attraverso il quale devono passare tutte le navi per entrare nel Golfo, è largo appena 21 miglia nautiche nel suo punto più stretto, ed è controllato da Iran e Oman. Questo significa che – invece di navigare attraverso acque internazionali – le navi che intendessero giungere dall’altro lato devono obbligatoriamente passare attraverso il territorio iraniano o dell’Oman che si estendono entrambe a 12 miglia nautiche dalle loro coste. In tal senso il passaggio delle navi è disciplinato Rights of Straits Passage – parte di una convenzione delle Nazioni Unite che dà alle navi libero passaggio attraverso i punti dove l’attraversamento non consente di non passare tramite acque territoriali. Nel caso dello stretto di Hormuz, la navigazione è incanalata attraverso due corsie che si diramano in direzioni opposte, ciascuna larga due miglia nautiche. Sia l’Iran che la marina americana possiedono navi da guerra dispiegate in quelle quattro miglia per pattugliare la zona, e non si sono mai scontrate. Una volta che le navi sono passate tramite lo Stretto di Hormuz, spiega un’analisi della Bbc, ed entrano nel Golfo, passano attraverso una zona contesa intorno alle isole di Abu Musa e alle Greater and less Tunbs. Queste al momento sono rivendicate sia dall’Iran sia dagli Emirati Arabi Uniti, ma occupate esclusivamente dalle forze iraniane. Lo scontro e il blocco effettuato dalle guardie rivoluzionarie si è verificato proprio intorno ad Abu Musa, tecnicamente in acque internazionali, in violazione del diritto del mare.

TENSIONI

L’episodio lascia aperti tanti interrogativi. In primo luogo, nel caso di una zona così importante come Hormuz, evidenzia la necessità di una forza navale internazionale che protegga la navigazione. Ancora più preoccupante è il fatto che il braccio navale del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie (più potenti del governo e del Parlamento in quanto sottoposti solo all’autorità dell’Ayatollah) non intende sottostare alla legge che regola il diritto internazionale del mare, alimentando l’incertezza delle relazioni internazionali della Repubblica Islamica. Oltre a questo, l’Europa che al momento non è in linea con gli Stati Uniti sul dossier Iran, ma fa comunque parte dell’accordo sul nucleare, sta osservando il Paese spingere il livello dell’arricchimento di Uranio oltre i limiti previsti e senza una precisa linea su come muoversi a riguardo. L’Iran peraltro ha già affermato di voler riavviare le centrifughe smantellate ed elevare la purificazione dell’uranio a una soglia nettamente più alta, a meno che non gli sia permesso di riprendere con le vendite del petrolio come prima dell’uscita di Trump dal deal. Insomma, se il grillo parlante israeliano ripete da tempo che l’accordo, per l’Iran, ha solo la finalità di “prendere tempo”, e che una volta conclusi gli obblighi il Paese riprenderà lo sviluppo del Programma nucleare da dove lasciato, questa poteva essere l’occasione per Teheran di dimostrarsi più diplomatica.

COME AGISCE L’IRAN

Per spiegare cosa spinge un’organizzazione come l’Irgc a minacciare un attacco armato contro una petroliera britannica, è necessario capire la strategia dell’Iran. l’Iran agisce come se stesse giocando un complesso gioco di diplomazia internazionale che mescola le minacce di guerra con le minacce diplomatiche, e che a volte comporta attacchi diretti e non (pensiamo a Hezbollah contro Israele) progettati per dimostrare la propria “forza”. Quando è richiesta maggiore diplomazia, invece, spiega un’analisi del Jerusalem Post, come nel caso della petroliera Britannica, le minacce si trasformano in atti di “guerra” come se non ci fossero secondi fini ma solo la volontà di creare un’escalation per vedere fino a che punto gli Stati Uniti (e i loro alleati) sono disposti ad accettare senza contrattaccare. Gli incidenti che hanno coinvolti l’Iran sono infatti aumentati visibilmente da maggio, quando c’è stato il primo sabotaggio delle quattro navi (appartenenti a Arabia Saudita, Norvegia e Emirati Arabi Uniti) nel Golfo di Oman. Il 13 giugno si è poi verificato il caso delle petroliere attaccate al porto di Jask per mano dell’Irgc, seguito dall’abbattimento del drone americano solo pochi giorni dopo. Certo, l’escalation si è calmata dopo che Trump ha rinunciato alla rappresaglia dopo quest’ultimo episodio, ma sono riprese subito dopo il caso della petroliera iraniana a Gibilterra con le prime minacce da parte di Rouhani. Eppure, il leader politico “moderato” dell’Iran, più che avvertire sembra aver semplicemente preannunciato quella che sarebbe stata la risposta dei Pasdaràn.

MOSSE CONTROPRODUCENTI

Insomma, se l’Iran non vuole l’ingerenza di una coalizione internazionale marittima che garantisca la sicurezza delle navi commerciali, questo è certamente l’atteggiamento sbagliato da assumere. Vuole che l’Europa riduca le sanzioni, ma ha allo stesso tempo iniziato a violare il Jcpoa con la ripresa dell’arricchimento dell’Uranio a percentuali elevate (oltre il 20%, diverse volte di più della percentuale di arricchimento richiesta per produrre bombe). E ancora, nonostante radar e droni che pattugliano lo stretto, ha deciso di mettere i bastoni tra le ruote ad una petroliera britannica nonostante la più che evidente presenza di una fregata della Royal Navy. Ogni obiettivo rivendicato, insomma, dall’Iran, vede il Paese comportarsi esattamente nella maniera opposta a quella più adatta per ottenerlo. Una provocazione per mostrare quanto Teheran si comporti in maniera sfacciata, mantenga le promesse anche se questo significa provocare una nave da guerra britannica, la coreografia di un incidente che non sarebbe mai dovuto avvenire. Questo atteggiamento è quello di cui Israele parla da diversi anni, ormai. Gli atti di “pirateria”, criminali o terroristici dell’Iran, dai vari rapimenti di marinai britannici nel 2004, 2007 e 2009, fino alle azioni di promozione dell’instabilità nella ragione mediorientale passando per i finanziamenti al terrorismo internazionale (compresi casi di attentati pianificati in Europa), dimostrano che la politica estera di Teheran si basa solo ed esclusivamente sulla provocazione e sul testare la resistenza dei propri rivali. Non sorprenda, allora, la telefonata avvenuta tra Donald Trump e Benjamin Netanyahu, Primo ministro di Israele e fermo sostenitore di queste teorie, nel quale i due leader hanno discusso delle azioni “maligne” e dell’altissima tensione nella regione. Forse ne continueranno a parlare tra di loro, o forse, stavolta, potrebbe unirsi anche Downing Street.

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