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Hong Kong, Cina pronta a reprimere le proteste?

C’è un ammassamento silenzioso di forze armate cinesi al confine con Hong Kong, e la Casa Bianca lo sta monitorando con attenzione ha spiegato un funzionario di alto livello dell’amministrazione Trump alla Bloomberg.

Lunedì il governo di Pechino ha avvertito che le manifestazioni — partite oltre un mese fa contro una proposta di legge che avrebbe favorito l’estradizione in Cina, poi diventata occasione per protestare contro la cinesizzazione della provincia semi-indipendente — sono andate ben “ben oltre” la soglia del raduno pacifico. Messaggio implicito: di più non sarà tollerato, sebbene con i riflettori dei media globali puntati contro per i cinesi sembrerebbe difficile spingersi oltre ai lacrimogeni lanciati contro la folla come nell’ultima settimana e qualche manganellata gratuita.

Tuttavia c’è quell’accumulo militare al confine la cui natura non è chiara che fa presagire giorni bui; il funzionario, che ha parlato anonimamente rivelando informazioni di intelligence piuttosto delicate (gli Usa osservano gli spostamenti delle forze armate cinesi) ha detto che sono state monitorare unità dell’esercito o della polizia antisommossa, radunate al confine con Hong Kong. Con una delicatezza in più: martedì Pechino ha affermato nuovamente che la violenza a Hong Kong è stata una “creazione degli Stati Uniti” — Washington chiaramente nega.

LE PAROLE DI POMPEO

Ieri il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha esortato i cinesi a “fare la cosa giusta” nella gestione delle proteste a Hong Kong. Ed è un messaggio del tipo: avete gli occhi addosso. Appunto. Il capo della diplomazia americana ha risposto a una domanda diretta sulla crisi durante il volo che lo stava portando al meeting Asean di Bangkok in cui incontrerà il ministro degli Esteri cinese: “Per quanto riguarda Hong Kong, questa è la gente di Hong Kong che chiede al proprio governo di ascoltarli, quindi è sempre appropriato che tutti i governi ascoltino il loro popolo”.

LA REPLICA DI PECHINO

Replica da Pechino: “È chiaro che Pompeo si è messo nella posizione sbagliata e si considera ancora il capo della Cia. Pensa che le attività violente a Hong Kong siano ragionevoli perché, dopo tutto, sono una creazione degli Stati Uniti” — “Coloro che giocano col fuoco si auto-immoleranno”.

Sviluppi tesi, che arrivano mentre i funzionari di Usa e Cina si vedono a Shangai per il dodicesimo round dei negoziati per raggiungere un accordo sul commercio che possa essere il più ampio possibile. Una promessa del presidente Donald Trump rilanciata in occasione dell’ultimo faccia a faccia con l’omologo Xi Jinping al G20 (l’americano cerca di rivendicare le sue capacità da businessman negoziatore e ogni volta che vede il cinese rilancia sulla possibilità di accordo imminente, ma poi nella sostanza i colloqui vanno avanti molto lentamente e né i cinesi né gli americani accettano concessioni). Trump finora ha parlato con parsimonia delle proteste nel Porto Profumato, elogiando il suo omologo cinese Xi per la sua moderazione. Un tentativo di non alterare il corso dei talks: su quasi tutti i dossier che riguardano i diritti la Casa Bianca appare disinteressata, pragmatica al limite del cinismo, mentre ad altre parti dell’amministrazione — come il dipartimento di Stato — viene lasciato il compito del bilanciamento su un ruolo storicamente occupato dagli americani nel mondo (la leadership del mondo libero).

INTERESSI CINESI

Dietro alla questione hongkonghese c’è un quadro delicato che per la Cina riguarda interessi economici, politici e geopolitici. Pechino è interessato a una riconnessione (per non dire annessione) rapida per implementare progetti strategici come la Greater Bay Area e per dimostrarsi politicamente forte. Per questo è disposta, intanto in modo quanto più impercettibile possibile, a non rispettare gli accordi secondo cui l’isola sarebbe rimasta gestita dallo schema “un paese, due sistemi” — quello che garantisce uno spazio di indipendenza a Hong Kong come accordo dopo la riconsegna inglese. Non si tratterà di gesti pubblici o marchiani, ma di processi subdoli, plausibilmente negabili, riforme legislative e modifiche dell’ordinamento non macroscopiche che però accelereranno la cinesizzano del sistema hongkonghese.

COSA POSSONO FARE GLI USA

Charles Lipson, professore di scienze politiche all’Università di Chicago, ha delineato il contesto davanti alla possibilità che aumenti il livello della repressione: “C’è ben poco che gli Stati Uniti possano fare, dovrebbero fare o vorranno fare prima di un grave giro di vite. Si lamenteranno con forza, ma dal punto di vista americano non c’è praticamente nulla che si possa fare se i cinesi decidono di reprimere Hong Kong”. Due giorni fa sul Giornale del Popolo, il quotidiano del Partito Comunista cinese, è stato pubblicato un editoriale in cui si chiedeva alle autorità di Hong Kong di non avere “preoccupazioni psicologiche” nell’usare la forza contro i manifestanti per ristabilire l’ordine: “Hong Kong ha perso il suo normale stile di vita come società governata dallo stato di diritto ed è caduta nella trappola delle forze straniere che sono decise a seminare disordini in Cina in nome della democrazia”, ha scritto il giornale di governo di Pechino.



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