Il Washington Post pubblica una lettera redatta da cinque menti delle relazioni estere americane – professori di Harvard, MIT, Yale, analisti del Wilson Center e del Carnegie Endowment for International Peace – che chiedono al presidente Donald Trump e al Congresso di non esagerare nello scontro con la Cina, perché aprire qualsiasi genere di guerra con Pechino non sarebbe conveniente per nessuno, a cominciare dagli Stati Uniti, ma anche per il mondo (e dunque per gli interessi degli Stati Uniti e degli alleati). La lettera riporta in calce la firma di dozzine di studiosi, il gotha del pensiero americano sulla politica estera ed economica, a cui è stato sottoposto il documento.
LE POLICY E IL CONTESTO
Si tratta di una bozza di policy, perché delinea i contorni del problema e spiega come comportarsi, e arriva in un momento favorevole perché in questa fase il presidente Trump, che ha da poco chiuso una proficua chiacchierata a latere del G20 col suo omologo cinese, Xi Jinping, potrebbe essere un po’ più ricettivo – ha addirittura messo sul piatto di un accordo a tutto tondo col Dragone la possibilità di stracciare la politica di isolamento contro Huawei, e non è poco come contenuto e simbolo.
Sia chiaro, “China is not an enemy” – questo il titolo del documento – si apre con un prologo fondamentale: “[…] siamo molto turbati dal recente comportamento di Pechino, che richiede una forte risposta”, conditio sine qua non affinché chi legge, la Casa Bianca e congressisti, vadano avanti senza buttare la lettera nel cestino. Perché se c’è una cosa abbastanza chiara in questo momento è che la competizione/confronto con la Cina è un argomento sentito da tutti gli apparati di qualsiasi colore politico o posizione all’interno della catena del valore e della macchina della sicurezza americana. Oltre le analisi accademiche.
PRAGMATISMO VS NAZIONALISMO, IN CINA
Il documento è costruito in sette punti, vediamoli. Si parte così: la maggiore repressione interna, un maggiore controllo statale sulle imprese private, il mancato rispetto di molti dei suoi impegni commerciali, maggiori sforzi per controllare l’opinione straniera e una politica estera più aggressiva, fanno della Cina un problema che però non è risolvibile con “l’attuale approccio” che è “fondamentalmente controproducente”, ossia rischia di inasprire le linee nazionaliste di Pechino. La Cina, scrivono, è un competitor economico, ma “non è una minaccia per la sicurezza nazionale che deve essere affrontata in ogni ambito”. E qui c’è una grande distanza con la postura attuale che ingaggia contro il Dragone uno scontro globale. Secondo gli studiosi potrebbe essere meglio un mix di “concorrenza e cooperazione” che potrebbe far crescere “le élite […] dall’approccio moderato, pragmatico e genuinamente collaborativo” che a Pechino soffrono contro i nazionalisti.
CHIUSURA = AUTO-DANNEGGIAMENTO
Altro aspetto: gli “Stati Uniti non possono rallentare in modo significativo l’ascesa della Cina senza danneggiarsi”. La teoria è: se Washington cerca di limitare la Cina facendo pressioni sugli alleati, rischia di danneggiare la propria reputazione internazionale, chiedendo a quegli alleati qualcosa che non possono fare – “trattare la Cina come un nemico economico e politico” – e isolandosi da loro. Secondo il suggerimento dei redattori del documento, invece, Washington dovrebbe lavorare con i propri partner per creare un mondo più aperto, perché “gli sforzi per isolare la Cina semplicemente indeboliranno l’intenzione cinese di sviluppare una società più umana e tollerante”.
IL DRAGONE NON È FORTE
La Cina, inoltre, non ha la forza politica – e forse nemmeno l’interesse – per sottrarre agli Stati Uniti la leadership globale, ha spinto per la costruzione di un esercito sempre migliore, che ha messo in difficoltà gli Usa in alcune aree di controllo come il Pacifico, ma gli autori suggeriscono che per Washington basterà giocare la propria deterrenza con gli alleati per riequilibrare le cose. “Pechino sta cercando di indebolire il ruolo delle norme democratiche occidentali all’interno dell’ordine globale. Ma non sta cercando di rovesciare componenti economici vitali e altre componenti di quell’ordine di cui la stessa Cina ha beneficiato per decenni”, per questo gli studiosi pensano che gli Stati Uniti dovrebbero impegnarsi a coinvolgere Pechino in regimi globali nuovi e modificati.
COSA FARE, DUNQUE
In conclusione, suggeriscono che gli interessi degli Stati Uniti sarebbero meglio serviti “ripristinando la capacità di competere efficacemente in un mondo che cambia e lavorando insieme ad altre nazioni e organizzazioni internazionali, piuttosto che promuovendo uno sforzo controproducente per minare e contenere l’impegno della Cina con il mondo”. Nota finale in contraddittorio alle posizioni ricostruite nel tempo da chi scrive e sopra riportate: “Riteniamo che il gran numero di firmatari di questa lettera aperta indichi chiaramente che non esiste un unico consenso a Washington nel sostenere una posizione di confronto generale riguardo alla Cina, come alcuni ritengono esista” (sarà, ma le ammissioni su cattivi comportamenti e problematiche prodotte da Pechino aprono ognuno dei paragrafi affrontati; l’approccio d’apertura, con cui provare a coinvolgere Pechino nei sistemi globali per produrre poi contro-aperture cinesi, è stato quello utilizzato nel corso degli anni passati e che la leadership statunitense ha sentito il bisogno di mettere in rottamazione, perché si è rivelato inefficace. Ndr).
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