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Allarme di Sapelli sulla crisi. Da che parte starà l’Italia? Con gli Usa o la Cina?

Avviso ai naviganti: la crisi di governo gialloverde non interessa solo il Belpaese. Giulio Sapelli, storico, saggista ed economista dell’Università statale di Milano, accende i riflettori sull’altra faccia del divorzio fra Lega e Cinque Stelle: la politica estera. Gli storici alleati italiani, sopra tutti gli Stati Uniti di Donald Trump, si stanno chiedendo dove si vuole collocare lo Stivale nelle prossime settimane che con ogni probabilità decideranno i nuovi inquilini di palazzo Chigi. Questa, dice Sapelli in un’intervista a Sussidiario.net, è la vera chiave di lettura per capire l’onda lunga delle manovre in corso nei palazzi romani.

Punto primo: cosa pensa Washington delle maree che scuotono la politica italiana? È una domanda che certamente si sta ponendo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, chiamato in questi giorni alle gravose decisioni che il suo ruolo richiede. L’ex Dc, spiega Sapelli, ha sempre fatto del legame atlantico un perno del suo operato, soprattutto nelle vesti di ministro della Difesa con i governi D’Alema II e Amato II. Non gli sfuggirà dunque la portata di uno slittamento geopolitico del Paese che potrebbe seguire alla nascita di un nuovo governo targato Pd-M5S. Un esecutivo, sentenzia il professore, “contrario agli interessi americani attuali in Italia. E a mio modo di vedere, a quelli dell’Italia stessa”.

Perché? Una prima ragione sovviene da sé: la Cina. Entrambi i partiti hanno dimostrato al governo di voler aprire, anzi spalancare le porte dell’industria e dei settori critici del Paese a Pechino. Gli americani non hanno certo scordato la stagione di shopping made in Italy dei cinesi durante l’estate del 2014, quando a piazza Colonna c’era il dem Matteo Renzi (vero regista della trattativa coi grillini). Allora, per dirne una, il 35% di Cdp Reti fu ceduto alla cinese State Grid Europe Limited fra lo stupore generale degli osservatori internazionali. Né la Casa Bianca manderà giù facilmente l’amaro boccone della firma italiana sul memorandum per aderire alla nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative, ndr) a marzo rivendicata come gran conquista dai grillini al governo. Se poi si dà credito ai retroscena che indicano in una telefonata a Nicola Zingaretti dell’ex premier Romano Prodi, da sempre sensibile alle richieste di Pechino, il passo decisivo che ha compattato il Pd nella trattativa con i Cinque Stelle, non si può davvero escludere che il fattore Cina abbia un ruolo nell’inedito asse cui lavora il Nazareno.

Poi c’è l’Europa, ricorda Sapelli. Un cartello Renzi-Di Maio porterebbe a “un governo “clintoniano”, sponsorizzato dai grandi big dell’industria finanziaria mondiale”. Un regalo, chiosa il professore, all’ “austerity europea” che “farebbe il gioco della Francia”. Senza il contrappeso tedesco, continua, “l’attivismo di Parigi rafforzerà la Cina, che ha con la Francia un rapporto privilegiato in Europa da più di un secolo”. Insomma, il professore boccia in toto la cura rosso-gialla, che prevede così: “Subordinazione totale alle politiche europee dell’austerità, accelerazione del processo di deindustrializzazione, svendita degli asset strategici del paese”.

In bilico non si può restare. Anche perché un governo che non governa è un problema per tutti, a partire dagli Stati Uniti, che con l’Italia hanno più di una partita in sospeso (F-35 e 5G in cima). Meglio le urne subito, dice Sapelli. E se al voto in autunno dovesse trionfare un governo di centrodestra a trazione leghista, non ci sarebbe da fare catastrofismi. A Washington non mancano i mal di pancia per come il Carroccio ha gestito i dossier comuni, a partire da quello cinese. È tempo per la Lega, penalizzata da “un gruppo dirigente non coeso”, di fare chiarezza sulla sua agenda di politica estera, smarcandosi dalle ambiguità di questo governo su cui lo stesso Giancarlo Giorgetti “aveva molti dubbi fin dall’inizio”. Non deve farlo con un post su Facebook, dice l’economista, ma con un documento ufficiale in cui spieghi i suoi rapporti con Cina, Russia (tanto più alla luce del caso Moscopoli) e Usa e ribadisca “fedeltà alla Nato, permanenza nell’euro per cambiare i trattati e la politica economica europea mediante alleanze, rapporti con la Russia su posizioni non dissimili da quelle di Colombo o Andreotti, cioè di dialogo, come io credo che Salvini voglia fare”.

Schiarite le zone d’ombra, spiega il professore, non c’è dubbio che un esecutivo di centrodestra sia preferibile per gli americani a una coalizione grillodem. “Gli Usa dovrebbero fare di tutto perché si andasse al voto, in modo che la Lega, vincendo, metta a tacere i 5 Stelle. In altri tempi sarebbe andata così. L’ambasciata americana avrebbe svolto un ruolo di primo piano, anche se non sotto i riflettori, per ovvie ragioni.”



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