Un attacco aereo ha centrato una base di una milizia sciita irachena, ed è il quarto episodio del genere in poche settimane. Non ci sono rivendicazioni ufficiali, ma ieri il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha risposto a una domanda mentre era in visita in Ucraina e ha dato un suggerimento su qualcosa che tutti pensano. “Siete voi a colpire in Iraq?” ha chiesto (sintetizzando) un giornalista presente alla conferenza stampa: “L’Iran non ha immunità, da nessuna parte. Agiremo, e attualmente stiamo agendo, contro di loro, ovunque sia necessario“. Né sì né no, ma poi sì che no.
Quando Netanyahu dice che Israele sta agendo contro l’Iran si riferisce agli oltre duecento raid con cui ha colpito — fin dal 2013 — il passaggio di armamenti sofisticati che i Pasdaran hanno organizzato in Siria per rinforzare i gruppi collegati come il libanese Hezbollah, il più importante di tutti. Aggiungere a questi azioni sull’Iraq è del tutto possibile, si dirà perché. Teheran ha sfruttato la guerra civile siriana per mobilitare i suoi satelliti — dozzine di gruppi armati, partiti/milizia, organizzazioni paramilitari — inviati sul suolo siriano per appoggiare militarmente il regime di Bashar el Assad, ma anche per trasformare il paese in una piattaforma logistica armata al confine con Israele.
Colpire questi scambi di armi e il rafforzamento collegato è considerato dallo stato ebraico una questione di sicurezza nazionale imprescindibile; e infatti Netanyahu ha fatto capire chiaramente che per tale ragione non intende darsi limitazioni geografiche. Attaccherà “ovunque necessario” l’Iran — che è nemico esistenziale di Israele e ha l’unità d’élite dei Pasdaran che si chiama “Quds Force”, ossia Forza Gerusalemme. Sono i Quds, guidati dal generale con più kalib (carisma velato) del Medio Oriente, Qassem Soulimani, che gestisce le linee geopolitiche più avventuriste e aggressive con cui Teheran sostiene la propria diffusione geopolitica nella regione. Programma ampio, che però ha trovato tool nella Siria in fiamme.
Si racconta che durante la guerra tra Israele e Hezbollah del 2006, un comandante iracheno trovò sul suo telefonino un messaggio di Suleimani che diceva: “Spero che vi siate goduti la calma a Baghdad. Ho avuto da fare a Beirut!”. Un incrocio interessante che spiega da sé come mai gli israeliani possono essere adesso interessati ad azioni in Iraq, ma non solo. Va ricordato che le intelligence israeliane danno per scontata la riapertura (imminente) del conflitto con Hezbollah, e sotto quest’ottica gli attacchi durante i passaggi di armi sono la scelta con cui Gerusalemme l‘azione preventiva per evitare una grossa guerra a riverbero regionale. Israele ha infatti già annunciato che davanti a una nuova riapertura del conflitto considererà la guerra come uno scontro con l’Iran e il Libano intero come nemico, perché gli Hezbollah hanno grossa presa sul paese fino alle stanze presidenziali. E anche in questo quadro che nei giorni scorsi gli Usa sono arrivati a impostare pubblicamente una mediazione tra Beirut e Gerusalemme.
Dietro ai raid israeliani ci sarebbe anche una questione tecnica, però (sebbene abbia conferme tra ricostruzioni non ufficiali che circolano tra i media locali). Una volta le armi iraniane arrivano a Hezbollah tramite aerei cargo che atterravano direttamente a Damasco, ma l’aeroporto è diventato un bersaglio facile per gli israeliani, e allora i Pasdaran hanno cominciato a seguire rotte più lunghe, su ruota, passando chiaramente dall’Iraq. E i magazzini di alcune milizie irachene sono diventati scali naturali.
La base colpita ieri si trova nella zona nord-est di Baghdad, quaranta chilometri fuori dal centro, nei pressi della Balad Afb. Si usa l’acronimo classico con cui gli americani indicano una base aerea perché a Balad sono rimaste alcune unità dell’esercito americano con team di contractor che partecipano alle operazioni contro lo Stato islamico. Ai tempi della guerra d’Iraq, proprio all’inizio della campagna nel 2003, fu occupata dalle forze statunitensi; veniva chiamata Anaconda. Ora ospita gli F-16 del 9′ Squadrone, ma nell’area c’è anche una base della Kata’ib Imam Ali, braccio armato del Movimento islamico dell’Iraq collegato all’Iran. È quella ad essere “finita sotto le bombe”. La milizia fa parte della al-Hashd ash-Shaʿabi. la Forza di mobilitazione popolare (più spesso con l’acronimo inglese Pmf), ossia la grande milizia ombrello chiamata così — con un nome piuttosto politico e potabile — dal governo iracheno, che ha sfruttato l‘intercessione iraniana per mobilitare decine di migliaia combattenti contro lo Stato islamico che tre il tra il 2014 e il 2015 si stava mangiando tutto la fascia settentrionale e occidentale del paese.
Aspetto particolare: tra le linee delle Pmf ci sono milizie che anni fa, durante la già citata guerra in Iraq, furono protagoniste — agendo anche per conto dell’Iran — dell’insurrezione armata sciita che mieteva giornalmente vittime tra le forze d’occupazione americana. Ai tempi Washington le considerava anche più pericolose di al-Qaeda in Iraq, che era il motivo per cui gli Usa erano lì, è che anni dopo si sarebbe trasformata nello Stato islamico o Isis per come lo conosciamo. Alcune di quelle milizie sciite, come la Badr Organizzation, la Lega dei Giusti, la Kata’ib Hezbollah, sono parte delle Pmf, gruppi che a distanza di anni hanno combattuto battaglie importanti contro i baghdadisti al fianco dell’esercito iracheno e soprattutto sotto il coordinamento degli americani. Per via informale, s’intende. La storia di quegli anni è importante per comprendere anche lo scenario dietro un altro attacco, avvenuto il 12 agosto nella base al Saqr, che dieci anni fa era Camp Falcon — anzi, Fob Falcon, che sempre per quegli acronimi sta per Forward Operating Base, come ricorda il giornalista del Foglio Daniele Raineri, che nel 2008 ha passato dei giorni nella base embedded ai soldati Usa che martellavano al Qaeda. Sempre Raineri ricorda di quando gli israeliani, col supporto francese, bombardarono Osarik nel 1981; era il progetto di reattore nucleare di Saddam all’interno di un laboratorio non distende da al Saqr.
Colpire gli scambi di armi con cui gli iraniani rafforzano i loro proxy è una sorta di operazioni Osarik modern e giovani — è un parallelo funzionale quello che fa Raineri. Due giorni fa il Wall Street Journal aveva un articolo in cui spiegava l’interesse israeliano a colpire la Pmf, che — come fatto capire da Netanyahu — adesso che il lavoro grosso contro il Califfato è finito è diventata l’estensione naturale dei raid anti-Iran. Il 19 luglio un incidente simile a quelli appena descritti è successo ad Amerli, più a nord, e inizialmente si era parlato di un drone dell’Isis (Amerli fu una di quelle battaglie in cui le forze sciite irachene liberarono la città dallo Stato islamico con l’appoggio aereo Usa).
Il 28 luglio è toccato a Camp Ashraf, e in quel caso sono circolate informazioni che erano stati gli Adir, il modello di F-35 che la Lockheed Martin ha preparato per Israele, ad entrare in operazione sull’Iraq in modalità stealth. In entrambe le posizioni c’è acquartierata la Badr, realtà khomeinista che è la componente principale della Pmf (si dice che fosse il comandante della milizia, Hadi al Amiri, a guidare i carristi iracheni, e non gli ufficiali regolari, durante le fasi più concitate della battaglia per riprendere Tikrit all’Is; pare che al Amiri prendesse a sua volta ordini diretti da Souleimani).
Dopo varie indiscrezioni su questo nuovo fronte, Netanyahu ieri ha dato qualcosa più di un’informazione: la strategia anti-Iran non ha limiti geografici. È possibile che si allarghi anche allo Yemen, dove i ribelli Houthi (che nei giorni scorsi hanno reso pubblico il proprio collegamento con Teheran) ieri rivendicavano l’abbattimento di un drone Reaper americano. Le indiscrezioni sul giornale kuwaitiano al Jarida — usato dal Mossad per far uscire informazioni lateralmente — dicono che sono già stati individuati i target sul Mar Rosso e sullo stretto di Bal al Mandab.