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Chi attenta all’unità della Cina. Il ruolo di Ong, Cia e Triadi. L’analisi di Valori

La rivolta di Hong Kong è più complessa e politicamente rilevante di quanto non si pensi, sia in patria che all’estero. Alle elezioni dello scorso settembre, nella ex-colonia Britannica sono stati eletti ben otto rappresentanti dichiaratamente indipendentisti che, alla prima riunione, hanno gridato frasi di odio contro la Cina Popolare e di netto rifiuto della sua specifica sovranità.

Gli “studenti”, e gli altri partecipanti alle proteste, hanno attaccato subito le stazioni di polizia; e poi hanno chiuso il principale tunnel che unisce l’isola di Hong Kong con il resto dell’ex colonia britannica, infine nella zona di Wanchai, nella Golden Bauhinia Square, un punto di riferimento per i moltissimi turisti cinesi, hanno sporcato di vernice le facciate dei palazzi e scritto, sempre con la vernice, su una statua “il Cielo distruggerà il Partito Comunista” e altrove “Liberate Hong Kong”.

Operazione, organizzazione, stabilità e continuità della rivolta, controllo e compattezza delle proprie file, eliminazione degli infiltrati, qualità militare delle operazioni degli “studenti”, ottima pubblicizzazione, capacità di reclutamento ci fanno pensare che questa rivolta sia talmente bene organizzata da non potere non avere riferimenti all’estero. Chi? Certamente ci sono gli Usa, con le loro foundations per la globalizzazione della democrazia, che pensano di fendere “calda” Kong Kong per destabilizzare la Cina, soprattutto data la vicinanza di Shenzen, una delle zone di maggior sviluppo dell’economia e della tecnologia cinese che potrebbe essere facilmente “infettata” dalla rivolta.

E, certamente, il dilemma attuale di Pechino sulla sua prossima reazione militare e sui suoi effetti nella pubblica opinione mondiale è già un grave danno alla politica cinese, sia interna che estera. E gli Stati Uniti hanno tutto l’interesse a provocare almeno la defamation globale della Cina, prima e dopo la rivolta d Hong Kong, proprio nelle more dello scontro sui dazi e le tariffe di importazione ed esportazione delle merci cinesi.

Poi c’è Taiwan che sulla base della grande eco della rivolta di Kong Kong cerca di pubblicizzare la sua idea di indipendenza dalla Cina. E di reazione contro le ultime azioni avverse di Pechino contro l’Isola Nazionalista. Poi potremmo avere tra gli interessati alla destabilizzazione del legame tra Hong Kong e la Cina il Giappone che è interessato all’indebilimento della proiezione strategica della Cina ad Oriente, infine perfino la Gran Bretagna che, in preda al sogno retrò che caratterizza l’attuale fase di Brexit, potrebbe pensare a un recupero della vecchia colonia, o anche a una semplice vendetta contro la Cina.

Tutto è iniziato con una grande manifestazione, alla fine dell’aprile scorso, contro la norma sull’estradizione, che facilitava il trasferimento a Pechino di cinesi giudicati colpevoli secondo le norme locali. E di criminali cinesi in arrivo che potevano essere protetti dall’autonomia di Hong Kong. La rivolta ha già obbligato Carrie Lam, la presidentessa della Regione Amministrativa Autonoma di Hong Kong, a ritirare il progetto di legge sull’estradizione. Ma ormai è troppo tardi per bloccare la rivolta.

Uno degli obiettivi dei dimostranti è anche quello di “sensibilizzare” i tanti turisti cinesi sulle loro richieste, che sono state molto amplificate dall’attuale crisi dell’economia locale. Una scelta di tipologia della propaganda che, anche, questa fa pensare a un influsso degli occidentali. Un influsso non casuale. Certo, uno degli obiettivi della rivolta è pure il tentativo di radicalizzare e destabilizzare le aree cinesi ai confini dell’ex colonia britannica, ecco perché Xi Jinping ha ha creato un “cordone sanitario” per le notizie che provengono da Hong Kong. Più la rivolta dura nel tempo, più l’obiettivo di essa, piuttosto irrealistico ma razionale, dati gli attuali equilibri politici, è proprio quello di “infettare” le aree del sud della Cina Popolare, le più moderne e produttive.

C’è chi sogna, Oltreoceano e in Asia, perfino la “disintegrazione della Cina”, sia sobillando le maggiori minoranze presenti nella Cina Popolare, sia destabilizzando i centri di maggiore concentrazione industriale, quelli del sud, sia ancora infettando le aree di più difficile comunicazione con il Centro politico e con Pechino. Tre progetti, contemporanei e simultanei, di destabilizzazione della Cina che sono già in atto da tempo. Con o senza la rivolta di Hong Kong, che è comunque strategica, per il frazionamento della Cina Popolare, in questo momento. Altrimenti, chi si oppone alla crescita della Cina come grande potenza potrà pensare a rafforzare la rivolta islamista nello Xingkiangm nel Tibet o a innescare una ulteriore rivolta in una delle 56 minoranze riconosciute della Cina Popolare, i Miao, i Dong, gli Yao, i Coreani.

Ecco cosa c’è davvero dietro l’idea di “Hong Kong Nation” che circola tra i dirigenti della rivolta attuale. E l’indipendentismo vale ancora, però, solo il 20-25% dell’elettorato della vecchia colonia britannica. E tutto questo non ha niente a che fare con la “nostalgia” per Londra. Per la Cina Hong Kong è un’area di grande importanza: Pechino ha sempre privilegiato, fin dalla presa britannica sull’isola, nel 1977, i rapporti con le potenti elites finanziarie e industriali di Hong Kong. E questo ha permesso alla Cina di possedere, di fatto, proprio nella fase delle Quattro Modernizzazioni, uno dei grandi snodi finanziari del mondo. Dio solo sa quanto questo sia stato importante per la ulteriore, successiva crescita della Cina.

Ma il promontorio già britannico è rilevantissimo anche dal punto di vista geopolitico. Intanto è il quinto porto per importanza nel mondo. E Pechino ha già posto in atto da anni il progetto della “Grande Baia” che unificherà, di fatto e di diritto, Hong Kong con la Cina. C’è già, inoltre, il progetto di mettere in comunicazione Hong Kong con Macao e con Zhihai, ma il Promontorio è anche già membro della Asian Infrastructure Investment Bank, ed avrà quindi un notevole ruolo nella Nuova Via della Seta. E Hong Kong, lo ricordiamo, quando fu aggregata alla Cina nel 1977, con Deng Xiao Ping, quello delle Quattro Moderinzzazioni (e della repressione di Piazza Tienamnen) valeva oltre un quarto del Pil dell’intera Cina Popolare.

La questione quindi era anche strettamente economica oltre che strategica. Ma per Xi Jinping, la questione principale è evitare, sia ad Hong Kong che in Cina, quella che appare ormai come una evidente “rivoluzione colorata”, simile a quella georgiana e ucraina, e come le varie Primavere Arabe che hanno regalato al jihad gran parte de Maghreb. Per la Cina Popolare il dilemma, oggi, è radicale e difficilissimo da risolvere. Dare corso, come ipotizzano alcuni dirigenti di Pechino, a qualche richiesta dei rivoltosi di Kong Kong che pure odiano profondamente la Cina? Oppure, fare come in Piazza Tienamnen? Probabile ma ancora pericoloso. Per gli effetti internazionali, soprattutto.

La signora Lam sarà tenuta al potere, probabilmente, da Pechino per evitare una nuova “elezione” da parte del Comitato Elettorale di Hong Kong, una struttura di 12 mila membri in una città di più di 7 milioni. Con 1,3 milioni, peraltro, in profonda povertà, ma per ora la “rivolta” è integralmente del ceto medio, come il ’68 europeo, la più bella operazione di destabilizzazione della storia recente che ha molti padri. Ma la rivolta di Kong Kong è ancora priva, diversamente dal ’68 europeo, di leader ufficiali. Mentre la rivolta dei filocinesi, nello stesso momento in cui si sviluppa la “rivolta” democratica e filo-occidentale, tenta di occupare le strade contro la lotta degli “autonomisti”. Non dimentichiamo nemmeno questa parte della questione. E la pressione della “rivolta” durerà certamente con la massima forza fino al 1° ottobre prossimo, giorno in cui si celebra l’anniversario della fondazione della Repubblica Popolare. E che ci sembra la data cardine oltre la quale un intervento cinese potrebbe avere il massimo effetto politico ed economico.

Due in fondo sono le vere motivazioni della “rivolta” autonomista e anticinese nella città-stato: una è la netta sfiducia verso la Cina, l’altra è la totale sfiducia anche verso l’attuale governo di Hong Kong che è ancora, quasi più della potenza cinese, l’obiettivo attuale della guerra civile ormai in corso. La Cina potrebbe ancora separare i due obiettivi dei rivoltosi, mettendo in crisi il governo locale e poi reagendo militarmente contro il resto degli “studenti”. I rivoltosi hanno in media 25 anni e sono equamente distribuiti per genere. In gran parte provengono dal ceto medio colto, soprattutto in quella parte che vota già i partiti “pan-democratici”, quelli che ad Hong Kong contrastano da tempo il governo filocinese. La popolazione povera viene perfino accusata dai rivoltosi di sostenere invece la Cina; essi, i poveri, non sono, secondo la rivolta, dei “veri hong-kongesi”, e ciò la dice lunga sulla natura sociale della rivolta.

Il “movimento” poi è molto decentralizzato, pubblica dei buoni periodici, si dice addirittura che le sue telecamere impauriscano la polizia. Nessuna delle università locali, però, sostiene la “rivolta” ufficialmente. Non vi è ancora una evidente solidarietà per la “rivolta” da parte della classe operaia. Né, tantomeno, da parte dei tantissimi lavoratori migranti.

Sempre per i membri della rivolta attuale ad Hong Kong, la parola “democrazia” non riguarda la formazione di un sistema elettorale a suffragio universale, che peraltro c’è già, sia pure ristretto, ma è una sorta di “nodo di vita” universale, senza repressione, restrizioni, controlli, e quindi sarà difficile confrontarsi con richieste simili semplicemente applicando la rappresentanza politica.
Ma la massa dei cittadini della città-penisola ancora non sostiene nemmeno superficialmente i rivoltosi.

Per aggiungere poi altre notizie a quello che abbiamo già detto sull’appoggio internazionale alla rivolta, certo, gli Usa la vedono favorevolmente, ma non dimentichiamo l’impegno diretto, ormai noto, della Ong National Endowment for Democracy, legata alla Cia, mentre la stampa della madre patria cinese sottolinea come la legge che ha fatto scattare la rivolta fosse inevitabile, altrimenti i criminali cinesi già giudicati avrebbero potuto scappare ad Hong Kong divenendo intoccabili. Settanta Ong hanno già firmato, poi, una lettera aperta per fermare la legge anti-estradizione, tra cui Amnesty International, Human Rights Watch, Red Cross International. Troppe per non pensare male. Peraltro i messaggi della protesta sembrano prodotti con tecnica puramente occidentale. Molti sono già scritti in inglese, invece che in cinese, e Hong Kong è sempre stato uno dei principali posti d’ascolto e di azione della Cia contro la Cina continentale.

Inoltre il suddetto National Endowment già opera soprattutto tramite l’Associazione dei Giornalisti di Hong Kong, il Civic Party, il Labour Party e il Partito Democratico di Hong Kong. E c’è anche la cripto-moneta creata da un oscuro sostenitore della rivolta, che si fa chiamare “Dr. Dragon”, che ha creato recentemente un “gettone” da distribuire tra i rivoltosi per favorire e finanziare la loro azione. E, come dicevamo, Taiwan sta certamente lavorando tra la gente della rivolta di Kong Kong. Poi, c’è anche la presenza delle Triadi cinesi,, durante la repressione della rivolta nelle varie città di Hong Kong.

Le Triadi sono essenziali per capire l’economia sia di Hong Kong sia di Macao. Hong Kong è la sede storica delle principali organizzazioni criminali cinesi. Per esempio essenziali in tutta l’economia criminale mondiale sono la 14K, la Wo Shin Wo e la Sun Yee On. Le Triadi minori sono a Hong Kong oltre 50. Ogni attività economica nella ex colonia britannica è sottoposta a tangente. Le attività legali e illegali più controllate dalle Triadi sono il gioco d’azzardo, la prostituzione, lo spaccio di droga, e il business della contraffazione di ogni tipo di prodotti, dai farmaci ai giocattoli.

Ma c’è un settore economico a Hong Kong quasi direttamente totalmente in mano alle Triadi, quello cinematografico. Soprattutto il genere legato alle arti marziali e quello pornografico. Forse, non a caso, la “rivolta” cita spesso i vecchi film di Bruce Lee, nato a San Francisco ma morto proprio a Hong Kong, e figura determinate nel mercato dei film sulle arti marziali. Macao è la capitale mondiale del gioco d’azzardo. La città ha cinque volte i giocatori di Las Vegas. Peraltro, come è ben noto, il gioco d’azzardo è il principale mezzo di riciclaggio del denaro sporco.

Se nella Cina e a Hong Kong il gioco è, almeno ufficialmente, proibito, tutti i giocatori cinesi, una massa colossale, vanno a giocare a Macao. E il 47% dei funzionari governativi e dei dirigenti delle aziende di Stato cinesi va a giocare a Macao. Questo permette un possibile ricatto nei confronti di una quantità non certo irrilevante della burocrazia cinese (e di Hong Kong). Ci sono però anche legami non labili tra le Triadi e il governo di Pechino.

L’attività di reperimento delle tecnologie di rilievo, civili e militai, viene spesso “ordinata” alle Triadi dal Dipartimento del Servizio cinese, il Guoangbu. Lo spionaggio cinese riguardo al Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, viene spesso svolto a favore della Cina Popolare dalla Triade Sun Ye On.

Le Triadi, come parte del rapporto di mutua assistenza con il governo di Pechino, controllano e reprimono gran parte della piccola criminalità sia in Cina che a Hong Kong. Quindi non è improbabile che nella prossima repressione cinese della “rivolta” ad Hong Kong ci sarà anche la collaborazione di alcune Triadi.


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