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Trump riabilita Bannon. “Sloppy Steve” tornerà alla Casa Bianca?

Steve Bannon non finisce mai di sorprendere. L’ex capo stratega di Donald Trump, da un anno in tour per l’Europa a sponsorizzare con alterna fortuna il populismo, era dato per spacciato. Cacciato con disonore dalla Casa Bianca nell’autunno del 2017, snobbato dai populisti europei (e soprattutto italiani) che ha corteggiato fino all’ultimo, il guru dell’alt-right americana sembrava pronto a chiuder baracca e baracchini. Ieri un tweet di Trump ha spiazzato tutti.

Ripostando sul suo profilo una video intervista di Bannon alla CNBC, il presidente si è lasciato andare a un ricordo nostalgico del suo ex consigliere di ferro. “Bello vedere come uno dei miei più grandi pupilli sia ancora un enorme fan di Trump. Steve si è unito a me dopo che ho vinto le primarie, ma mi è piaciuto molto lavorare con lui!”.

È la prima volta che Trump torna a parlare di Bannon dal gennaio 2018. Allora il best-seller di Michael Wolff, “Fire and Fury”, aveva riportato alcune dichiarazioni al vetriolo dello stratega, dirette in particolare contro i figli del presidente, Ivanka e Donald Trump Jr. Trump lo aveva scaricato in un batter d’occhio. “Sloppy Steve”, aveva twittato, “ha avuto poco e niente a che vedere con la nostra vittoria”. In una furia di cinguettii aveva perfino scritto che Bannon “ha pianto quando ha perso il suo lavoro” e che da quel momento sarebbe stato “scaricato da tutti come un cane”. Gli addetti ai lavori a Capitol Hill raccontarono che quel giorno Bannon aveva già convocato una conferenza stampa per screditare il reportage di Wolff e difendere a spada tratta il presidente. Letta la raffica su twitter l’ex stratega preferì rinunciare, chiudendosi in silenzio.

Di lì ha avuto inizio il lungo esilio che lo ha portato in Italia, consacrata a vera fucina del populismo europeo dopo il successo elettorale di Lega e Cinque Stelle nel marzo 2018. In primavera i primi contatti informali con Matteo Salvini e Luigi Di Maio, poi le conferenze, i dibattiti, le apparizioni tv. Bannon è diventato il fan numero uno del matrimonio legastellato. Populisti di destra e di sinistra uniti nel segno della guerra alle “élites”. È il sogno che avrebbe voluto veder realizzato lui in America con i Trumpeteers e i supporters di Bernie Sanders.

L’amore è ricambiato, almeno all’inizio. A settembre è ospite d’onore di Giorgia Meloni al festival Atreju, in ottobre spunta una foto con Salvini e l’avvocato belga Michael Modrikamen per ufficializzare l’adesione leghista a “The Movement”, una fondazione con cui Bannon avrebbe voluto aiutare i populisti alle elezioni europee, ma di cui non si è saputo più nulla.

Infine il grande gelo. I leghisti lo evitano, e così i pentastellati. A poco a poco prendono le distanze da lui Marine Le Pen, i nazionalisti tedeschi di Afd, quelli olandesi di Geert Wilders. Dal circuito diplomatico americano viene chiesta prudenza, meglio non accostare la figura di Bannon all’amministrazione Usa in carica. L’ex stella di Breitbart News non si perde d’animo, e torna alla ribalta a marzo, per gridare ai quattro venti di non firmare il memorandum con la Cina di Xi Jinping, un suo vecchio pallino. I moniti, però, rimangono inascoltati. L’ultimo sberleffo a fine maggio. Un avviso di sfratto, per la precisione. Il ministro M5S dell’Istruzione Alberto Bonisoli avvia l’iter per revocare la concessione dell’Abbazia di Trisulti, in provincia di Frosinone, al Dignitatis Humanae Institute, una fondazione con cui Bannon, assieme al titolare Benjamin Harnwell, avrebbe voluto metter su una “scuola di sovranismo”.

Ora la riabilitazione direttamente da Pennsylvania Avenue, un fulmine a ciel sereno. A legger fra le righe l’endorsement di Trump è solo parziale. Quando spiega che Bannon si è unito a lui “dopo le primarie”, il presidente rimarca una linea già tracciata ai tempi del divorzio. Lo stratega è subentrato in campagna elettorale solo all’ultimo, quando Trump, dato per sconfitto nei sondaggi, aveva già fatto tabula rasa dei suoi avversari nel Partito repubblicano.

È indubbio però che Bannon abbia ricoperto un ruolo tutt’altro che secondario prima e dopo l’approdo di Trump nello Studio Ovale. Le sue due battaglie identitarie degli esordi, la crociata contro la Cina a difesa del manifatturiero made in Usa e quella contro i migranti dal confine Sud, sono rimaste i cavalli di battaglia del presidente a distanza di tre anni, e con ogni probabilità continueranno ad esserlo nella campagna per le presidenziali del 2020. Difficile che il guru sovranista possa far le valigie per tornare all’ovile. Ha ancora una fitta rete di contatti con i repubblicani che ruotano intorno al Freedom Caucus e potrebbe tornare utile al presidente nell’ultimo miglio di campagna elettorale, ripetendo l’esperimento vincente del 2016.

Alla Casa Bianca un suo ritorno è visto da quasi tutti come fumo negli occhi. Soprattutto da Ivanka Trump e il suo potentissimo marito Jared Kushner, ribattezzati in tono dispregiativo da Bannon “Jaranka”, da sempre suoi acerrimi avversari.

D’altronde Trump non ha mai riaperto le porte a uno dei suoi tanti collaboratori licenziati in tronco. Nello schema Trump c’è solo un biglietto d’andata. Ma il presidente ha sempre mostrato una certa allergia per gli schemi. Mai dire mai.

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