Il dibattito andato in scena ieri al Senato è stata, al di là di molte altre cose, la testimonianza che il paese è allo sbando. La società italiana si sta richiudendo in un individualismo sfrenato che non risparmia nessun aggregato collettivo: politica nazionale, rappresentanze locali, intermediari sociali, famiglia, vicini di casa.
Esiste solo l’individuo; non in quanto attore della molteplice serie di identità collettive alle quali ognuno di noi appartiene (facciamo pur sempre parte di qualche circolo culturale, sportivo, religioso; e siamo comunque membri di una famiglia, di collettività locali, regionali, nazionali, continentali, mondiale: tutti raggruppamenti che con la nostra intelligenza potremmo contribuire a forgiare), ma nella sua infinita solitudine. Siamo ormai un popolo di 60 milioni di esseri soli, oltretutto incapaci di confrontarsi con le tendenze ipertrofiche del proprio ego. L’egoismo, il ‘vizio privato’ non diventa, come teorizzavano ottimisticamente gli illuministi scozzesi, ‘pubblica virtù’ ma si ferma all’autocelebrazione autoreferenziale del sé. Con un’espressione nobile ma errata potremmo dire “al perseguimento del proprio interesse”.
Ma sarebbe appunto un errore, perché si tratta spesso di un interesse eterodiretto, veicolato da chi controlla i media, che l’ignoranza sempre più dilagante e la diffusa mancanza di capacità critica e di pensiero critico (inesorabilmente smantellati negli anni dalla cosiddetta ‘destra’ così come dalla cosiddetta ‘sinistra’) non permette di distinguere da quello effettivo, tanto che l’individuo/cittadino si ritrova a fare non i propri interessi, ma quelli di qualche individuo o corporazione ben più potente di lui. L’individualismo sfrenato del nostro tempo (non solo in Italia) è lo specchio del fallimento (più o meno consapevolmente architettato) di tutti i luoghi di azione collettiva, prima fra tutte la politica. Salvini l’ha capito ed ha cavalcato questa intuizione meglio di chiunque altro. E, anche solo per questo, gli va riconosciuto un fiuto politico non comune. Demonizzarlo, oggi, serve solo a mettere la polvere sotto il tappeto.
Anche la democrazia, il momento alto di scelta collettiva del ricorso alle urne, degenera nella casualità della direzione che prende l’umore di turno (naturalmente opportunamente guidato dai media); o nell’acclamazione di un soggetto magari anch’esso eterodiretto, con facili tendenze autoritarie e totalitarie. Un Orban di turno. Una ‘democrazia’ ridotta a voto plebiscitario per l’assenza di qualsiasi alternativa credibile.
Eppure i cittadini italiani avevano fiutato questa deriva, sia con una crescente astensione sia esprimendo il proprio largo consenso nel 2018 ad una forza politica nuova, non strutturata negli apparati di potere, che prometteva trasparenza (poi rivelatasi l’esatto contrario), innovazione (declinata invece in immobilismo), rinnovamento dei meccanismi di autoriproduzione della casta (di cui poi essi stessi, una volta entrati a farne parte, hanno contribuito a perpetuare i privilegi, al di là di qualche colpo di trucco in pasto agli elettori). È questo il vero segnale che il popolo italiano, magari inconsapevolmente, ha espresso con chiarezza e che non dovrebbe essere dimenticato. Anche il consenso plebiscitario per la Lega nel maggio scorso deve essere letto – non tanto come lo scivolare della società italiana verso una deriva autoritaria, razzista e fascista (che è già, purtroppo, nel DNA del nostro paese) – ma come una ennesima forma di protesta, come il risultato del fallimento del M5S a dare voce all’insofferenza dimostrata l’anno precedente verso una elite percepita come ‘casta’.
Questa crisi di governo, la fine dello sciagurato esperimento giallo-nero, crea una flebile ma preziosa opportunità. Rimettere le mani sulla società italiana, raddrizzarne la barra, mostrare che la politica può e deve essere cura appassionata del bene comune; anzi, di tutta una serie di beni comuni, collettivi, che ridiano dignità e senso alla pluralità di identità collettive che ciascuno di noi possiede.
La sovranità, ossia la capacità di esprimere scelte efficaci in una serie di collettività fondate su gruppi variabili e talvolta sovrapposti di individui, in un mondo interdipendente non può appiattirsi su alcuna dimensione specifica. Non quella locale, perché ci riporterebbe nel medioevo. Non quella nazionale, perché i muri e il monopolio della forza in mano agli Stati sono forieri d’inevitabili conflitti, come le guerre mondiali (ma anche quelle locali che le hanno precedute e seguite, fino ai nostri giorni) dovrebbero aver ampiamente dimostrato. Esercitare la sovranità, oggi, significa dare fiato a tutte le nostre espressioni collettive, essere attori di scelte ai vari livelli ai quali esse si pongono e ai quali possono essere efficacemente affrontate. È un’operazione complessa; ma solo in un’ottica multilivello la democrazia può oggi riacquisire senso.
Se s’intende davvero combattere la deriva autoritaria della società italiana serve un governo che, indipendentemente dai soggetti ben poco credibili che inevitabilmente ne faranno parte, abbia un programma credibile e di ampio respiro. Un governo capace di mobilitare e potenziare gli investimenti realizzabili nell’ambito del cofinanziamento offerto dal Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (le cui risorse sono escluse dal tanto vituperato Patto di Stabilità e non concorrono quindi a peggiorare la nostra situazione di finanza pubblica) e di spendere le risorse messe a disposizione dall’Unione Europea nei fondi strutturali per ridare fiato ad un sistema economico fermo da almeno trent’anni; di negoziare in modo serio il rilancio del progetto d’integrazione europea sottraendo spazio decisionale ai governi per rimetterlo nelle mani di istituzioni comunitarie egualmente rappresentative degli Stati e di tutti i cittadini europei (come era prima di Maastricht) senza l’uso del diritto di veto; di riformare Dublino per permettere alla tragedia dell’immigrazione di trasformarsi in un’occasione di integrazione e crescita collettiva per il futuro del Vecchio Continente; di guardare in maniera strategica ad una collocazione industriale (in senso lato) dell’Europa nella competizione internazionale sulle piattaforme digitali, le infrastrutture di comunicazione e trasporto, le tecnologie sostenibili. E di adeguare il sistema italiano a queste nuove sfide continentali in modo da avvantaggiarsi della fantasia, della capacità innovativa, della creatività del genio italiano; ma anche di fornire all’intera filiera educativa risorse e una nuova dignità di formazione al pensiero critico, alla flessibilità mentale, all’inventiva.
Un governo insomma che, per evitarci il ripetersi delle sceneggiate viste ieri in Senato e accartocciarsi in mere diatribe di potere, consegnando l’Italia ad un destino di ulteriore imbarbarimento, può essere assicurato, oggi, solo dalla regia costante, attenta ed attiva del Presidente della Repubblica. Caro Presidente, almeno lei non si sottragga a queste sue, per quanto enormi, responsabilità.