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Servono scelte chiare su Iran, Cina e Nato. Lo spiega l’ambasciatore Stefanini

Urge riscoprire una politica estera fermamente euro-atlantica, che ai proclami faccia seguire scelte concrete su dossier delicati come il rapporto con la Cina, le relazioni con Teheran e gli impegni nella Nato e nella Difesa europea. È il punto dell’ambasciatore Stefano Stefanini, senior advisor dell’Ispi, già consulente diplomatico del presidente Napolitano e già rappresentante permanente per l’Italia all’Alleanza Atlantica, che così rilancia l’appello di Formiche.net sulla necessità di assumere una postura più nettamente occidentale come richiesto a gran voce da alleati e partner. A Washington si stanno chiedendo fino a che punto procederà il nostro rapporto con Pechino, mentre restare fuori dall’iniziativa Usa-Uk per la protezione dello Stretto di Hormuz ci escluderebbe dai tavoli su cui si deciderà il futuro della ragione. Poi, c’è il dibattito Nato, con la scomoda difficoltà sul fronte del budget e la necessità di orientare la Difesa europea verso un’assoluta complementarietà all’Alleanza.

Ambasciatore, Formiche.net ha lanciato un appello affinché il governo assuma una postura più nettamente occidentale. Lo condivide?

Personalmente la definirei più come la necessità di assumere una postura di politica estera, fino ad ora rimasta abbastanza vaga. Il governo ha esordito con un programma di politica estera veramente ridotto ai minimi termini, condensato in meno di una pagina e mezzo sul contratto tra le due forze politiche in cui si riaffermavano, in termini molto vaghi, sia la vocazione europea, sia quella atlantica. Eppure, non si entrava realmente in ciò che comporta, oggi, avere una posizione nel contesto europeo e atlantico. Insomma, c’è necessità di fare politica estera.

Come?

Bisogna avere la consapevolezza dei nostri interessi strategici (chiamarli “nazionali” è un po’ abusato) come Paese che, in Europea e nel Mediterraneo, è legato al mondo occidentale da una rete di legami economici, commerciali, ma anche culturali e di popolo. Gli italiani sono ovunque in Paesi come Stati Uniti, Francia, Spagna o Regno Unito. È un legame quasi personale che non abbiamo con altre parti del mondo. Poi, una volta riconosciuto ciò che siamo, e cioè un Paese che ha radici in Europa e in Occidente, regoliamo la nostra politica estera anche con interlocutori non occidentali nella maniera più amichevole possibile, ma avendo sempre ben presenti le realtà fondamentali. Con questo concetto in mente, si può passare alle singole dimensioni strategiche.

Arriviamo in questo senso alla Cina. Il memorandum siglato dall’Italia con Pechino non è piaciuto agli americani. Abbiamo perso posizioni in Europa agli occhi di Washington?

È difficile dirlo, soprattutto in un momento in cui gli Stati Uniti, con l’amministrazione Trump, hanno rapporti difficili con la maggior parte dei Paesi europei. È in corso un riavvicinamento con il Regno Unito di Boris Johnson, ma restano difficoltà con gli altri principali Stati come Germania e Francia. Con Macron, dopo l’iniziale flirt, c’è stato un netto raffreddamento. Non credo dunque che abbiamo perso posizioni, ma sicuramente a Washington si stanno chiedendo fino a che punto può arrivare il nostro rapporto con la Cina.

Sono timori fondati?

Il memorandum firmato lo scorso marzo contiene reciproche assicurazioni molto generiche. Il problema sorgerebbe nel momento in cui ciò si traducesse in fatti concreti, ad esempio dando accesso a Huawei in un modo in cui altri Paesi non lo fanno. Ciò diventerebbe incompatibile con il rapporto di speciale amicizia con Washington che pretendiamo di voler continuare. L’attuale governo italiano ha fatto leva su alcune affinità ideologiche tra l’amministrazione Trump e i due partiti di maggioranza, specialmente la Lega, al fine di rinverdire la buona relazione bilaterale tra Stati Uniti e Italia. Questo significa però fare anche delle scelte chiare. Non si può stare sempre con il piede su due staffe.

Ci spieghi meglio.

Gli Stati Uniti hanno un rapporto di confronto con Cina e Russia. I nostri buoni rapporti con Pechino non possono andare oltre un limite che ci porti allo scontro con Washington. È un discorso da “l’uno o l’altro”, e quello che ci offre il rapporto con gli Usa è incommensurabilmente maggiore di ciò che ci offrono le relazioni con i cinesi. Sono scale di grandezza diversa a livello economico-commerciale, culturale e valoriale.

Ciò si può applicare anche al dossier iraniano? Gli Stati Uniti chiedono agli alleati sostegno nel presidio delle acque dello Stretto di Hormuz.

Il dossier iraniano è particolarmente complesso a causa di un doppio problema: primo, il rapporto tra Occidente e Iran; secondo, la spaccatura interna all’Occidente tra europei e americani. L’amministrazione Trump ha adottato una strategia che punta a piegare l’Iran per costringerlo a nuove trattative, mentre gli europei (compreso ancora il Regno Unito) vogliono cercare di salvare ciò che resta dell’accordo nucleare.

Ma gli Stati Uniti non cercavano un regime change?

Su questo, gli iraniani dovrebbero rendersi conto che rischiano un cambio di regime meno con questa amministrazione rispetto a quella Obama. La scommessa del precedente presidente Usa era che il Jcpoa facesse aprire il regime di Teheran e lo ammorbidisse. Trump invece è indifferente alla natura del regime, e il caso della Corea del nord lo dimostra ampiamente. Se il regime iraniano accettasse di negoziare con Washington su tutti i dossier (politica regionale, proxy e altro), non ci sarebbero minacce a Teheran da parte americana.

E l’Italia come si inserisce nel discorso?

L’Italia è rimasta ai margini della discussione pur essendo il Paese che, insieme alla Germania, ha maggiori interessi e potenzialità economico-commerciali in Iran. D’altra parte, non abbiamo fatto parte dei negoziati che portarono all’accordo nucleare. In questo momento, dovremmo a mio parere cercare di sostenere la linea europea, che però può comprendere l’iniziativa britannica per la sicurezza della navigazione nello Stretto di Hormuz. Per Teheran sono misure aggressive, ma in realtà la protezione di petroliere e navi civili con unità militari non avrebbe nulla di aggressivo, soprattutto se avvenisse sotto il cappello europeo spogliandosi dell’apparente aggressività di una missione Usa. La cosa peggiore, in ogni caso, sarebbe non far nulla.

Ci spieghi meglio.

Nel caso in cui non prendessimo una decisione su Hormuz, gli iraniani ce ne potrebbero pure essere grati, ma poi non saremmo in grado di negoziare direttamente con loro in assenza di un iniziativa europea. I britannici finiranno con ogni probabilità nelle braccia dell’amministrazione Trump, e si perderebbe il tentativo di una politica europea su Teheran quale una terza via rispetto al confronto e all’appeasement. Una simile mossa andrebbe fatta in piena solidarietà con gli altri Paesi europei, ma l’Italia deve essere dentro.

Un altro dossier complesso per la collocazione euro-atlantica dell’Italia riguarda la sua lontananza dall’impegno Nato a spendere il 2% del Pil sulla Difesa entro il 2024. Ha messo in difficoltà la nostra posizione nell’Alleanza?

Purtroppo il dibattito alla Nato sulla spesa militare ha messo in sordina tante altre cose. Il nostro ruolo nell’Alleanza rimane potenzialmente importante per diverse ragioni. Prima di tutto perché abbiamo sempre sostenuto la necessità che la Nato guardi anche a sud, verso una dimensione ormai importante per tutta l’Alleanza. Poi perché, parallelamente, abbiamo tenuto fermamente gli impegni presi anche nella deterrenza nei confronti della Russia, partecipando alla forward presence nei Paesi baltici. È chiaro però che la pressione sulla spesa continuerà, e noi dobbiamo cercare di dimostrare che stiamo facendo abbastanza anche sul quel fronte.

In che modo, se mancano le risorse?

La Difesa europea può essere una risposta. Dobbiamo assolutamente fare valere alla Nato il concetto che la difesa comune è accessoria all’Alleanza e una risposta al burden sharing. Ciò significa tuttavia operare anche nel dibattito interno all’Unione, ad esempio sull’accesso al Fondo europeo di difesa (Edf) anche alle società di Paesi extra-Ue che abbiano accordi con aziende europee. Ciò dimostrerebbe in concreto che quello che stiamo facendo non è in concorrenza con la Nato. Inutile dire che questo sarebbe particolarmente importante anche per l’Italia vista la strutturazione del nostro comparto industriale, il quale presenta legami piuttosto forti con Regno Unito e Stati Uniti.

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