Lo stallo in cui la crisi di governo sta gettando il Paese rischia di aprire un’altra crisi, imprevedibile, e forse più grave. Parliamo dei rapporti con gli Stati Uniti d’America. Da mesi cercano a Palazzo Chigi un interlocutore che dia ascolto alle loro richieste senza ritrattare il giorno dopo. L’ultimo colloquio si è tenuto lo scorso 26 luglio a villa Taverna, la residenza romana dell’ambasciatore Lewis Eisenberg. Convocato speciale il vicepremier Luigi Di Maio, cui il diplomatico ha chiesto di fare chiarezza sui nodi irrisolti fra Roma e Washington. Il caso Moscopoli, gli impegni presi con la Nato. Ma soprattutto le intenzioni del governo sul 5G, la rete di ultima generazione che la Casa Bianca ritiene esposta a gravi rischi per la sicurezza quando finisce nelle mani di aziende controllate dal governo cinese.
Il tempismo non era casuale. Dieci giorni prima la Commissione Finanze del Senato aveva congelato il decreto legge n. 64 del governo che doveva estendere al 5G la normativa del Golden Power per tutelare la sicurezza di un settore strategico come quello delle telecomunicazioni. Il sottosegretario pentastellato Vincenzo Santangelo aveva spiegato che per il governo il dossier non presentava i requisiti di necessità e urgenza e sarebbe potuto confluire in un organico disegno di legge sulla sicurezza cibernetica. Per dirla con Adolfo Urso (Fdi), uno dei pochissimi parlamentari ad aver sottoposto all’attenzione pubblica il tema fino all’ultimo, “una soluzione grottesca”. Perché affidare un tema così delicato a una legislatura moribonda, con un governo sull’orlo del naufragio, significa affossarlo una volta per tutte, consapevolmente. Con buona pace delle rassicurazioni che continuamente i gialloverdi, più i verdi che i gialli, avevano inviato alla Casa Bianca nei mesi scorsi.
E qui veniamo al punto. Ora che con l’editto di Sabaudia Matteo Salvini ha suonato il requiem dell’esecutivo, il governo che verrà dovrà fare i conti con uno strappo diplomatico non facile da ricucire. La messa al bando di aziende cinesi dalla gestione e implementazione della rete 5G continua infatti ad essere in cima all’agenda dell’amministrazione Trump. Questo mercoledì la Casa Bianca ha formalizzato il divieto per le agenzie del governo federale, contenuto nel Defence Authorization Act, di stipulare contratti con aziende cinesi. Non è tutto: da metà agosto entrerà in vigore il decreto presidenziale che impedirà alle aziende hi-tech americane di esportare tecnologia made in Usa in Cina, privando il colosso di Shenzen Huawei del sistema operativo Android di Google. Una spinta sull’acceleratore che presto chiamerà in causa gli alleati internazionali. E troverà l’Italia impreparata.
Ad allungare le distanze con gli americani si aggiunge un altro dossier destinato a rimanere dietro le quinte nella crisi in corso d’opera. Da sette mesi il governo avrebbe dovuto chiarire i suoi impegni sul programma F-35. A fine settembre, ha ricordato Stefano Pioppi su Formiche.net, scadono i termini per decidere sui lotti 15, 16 e 17 per il periodo 2023-2027. Se il governo non dovesse esprimersi in tempo, e la crisi rende questa un’ipotesi più che realistica, il conto da pagare sarebbe salatissimo. Danni occupazionali ed economici allo stabilimento industriale di Cameri, e all’intero comparto. E soprattutto alla reputazione del Paese, che rischia di dare forfait a un programma che l’amministrazione Usa in carica considera un termometro per distinguere fra alleati e non.