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La guerra dei due Matteo. L’arbitro sarà la Casellati (più di Mattarella)

La partita si fa sempre più a due. Da una parte Matteo Salvini. Dall’altra Matteo Renzi. Uno impegnato in una corsa contro il tempo per sfiduciare Giuseppe Conte, archiviare la crisi e volare alle urne a ottobre. L’altro intento in queste ore a fermarlo, con un accordo in Parlamento con Cinque Stelle e Forza Italia che allunghi la vita alla legislatura e rimandi in primavera il voto.

I due Mattei fanno da capisquadra, gli schieramenti sono ancora da definire. L’operazione Renzi sembrava davvero andata in porto questa mattina. Poi il segretario del Pd Nicola Zingaretti ha detto la sua, cambiando le carte in tavola. Con un articolo sull’Huffington Post intitolato “Con franchezza dico no” il capo dei dem chiude. No all’accordo coi grillini, “darebbe a Salvini uno spazio immenso di iniziativa politica tra i cittadini”. No alle scorciatoie di palazzo, perché “Salvini non è affatto imbattibile”, sempre che chi deve remare insieme al partito non inizi a “instillare veleno tra noi”.

Una scure calata improvvisamente che può complicare le cose. È vero, Renzi è ancora il leader de-facto del Pd, è lui a dare le carte. Ha dalla sua gran parte degli onorevoli dem. Numeri alla mano, solo al Senato ne conta circa 35-40 su 51, 60-65 su 111 alla Camera. Eppure l’ultimatum di Zingaretti rischia di stravolgere i fragili equilibri che servono all’ex premier di Rignano, e ai Cinque Stelle, dove si giocherà la partita finale: nella Conferenza dei Capigruppo al Senato, convocata per lunedì pomeriggio.

Lì, a palazzo Madama, andrà in scena un braccio di ferro sulla definizione del calendario. Il menu oggi prevede, in ordine, la votazione della mozione leghista di sfiducia a Conte, poi quella contro Salvini, infine la quarta e ultima deliberazione sul ddl “Taglia poltrone”, l’arma segreta dei Cinque Stelle per mettere alle corde “il traditore” di fronte all’elettorato.

Matteo S. e Matteo R. andranno alla conta. Il primo ha dalla sua Massimiliano Romeo (Lega), Luca Ciriani (Fdi), Anna Maria Bernini (Fi), leader azzurra che da giorni chiama a gran voce il voto. Il secondo su Stefano Patuanelli (M5S), Julia Unterrberger (Svp), Loredana De Petris (Misto). In bilico Andrea Marcucci (Pd). Da sempre il dem è considerato vicino a Renzi. Ma l’editto di Zinga lo mette di fronte a un bivio non semplice: seguire l’amico e il leader, o le indicazioni del capo?

I forzisti possono fare da ago della bilancia. Tutti i big del partito, compresi i colonnelli di Silvio Berlusconi, dichiarano apertamente di volere le urne subito. Il bagno elettorale ha i suoi rischi, ma impedirebbe a Giovanni Toti di organizzare le sue truppe per tempo e renderebbbe meno dolorosa la scissione. Senza la sponda azzurra per Marcucci diventa più difficile esporsi.

L’ultima parola però arriverà dalla presidente del Senato, la forzista Maria Elisabetta Alberti Casellati. In caso di mancata unanimità (che certamente non ci sarà), il regolamento (art. 55) prevede che possa rimandare la decisione sul calendario al voto dell’aula, magari convocandola subito, anche il giorno dopo. Lì, nell’emiciclo, i senatori saranno chiamati al voto palese. Il che rende più difficile per gli onorevoli di Forza Italia e del Pd sconfessare apertamente le indicazioni ufficiali del partito e dare l’ok all’operazione Renzi. In poche parole, con il voto palese i Cinque Stelle rischiano di ritrovarsi da soli, e il “governo del presidente” di cui si mormora in queste ore sfumerebbe definitivamente.

Prima ancora del Quirinale, cui la Costituzione affida le redini della crisi, sarà dunque la Casellati a deciderne le sorti. Domani, al Senato, sarà molto più di un semplice arbitro. In attesa che a scendere in campo sia Mattarella.

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