C’è la possibilità di immaginare una destra politica al di là della pseudo-destra incarnata dal salvinismo e da un populismo che vive di occasionalismo? Certo che c’è , ma a condizione che le varie “anime” disperse, alcune delle quali hanno trovato “ricovero” in Fratelli d’Italia – la cui proiezione in un avvenire promettente potrebbe essere alla portata se si emancipasse dalle tentazioni filo-leghiste (vedi il perseguimento di un obiettivo francamente poco entusiasmante: il governo sovranista…) e riconoscesse nel suo dna il fondamento della reinvenzione della destra nazional-conservatrice e popolare – ed “inventino” il modo di ricomporsi in un soggetto diffuso.
E, inoltre, a patto che prevalga la convinzione culturale, oltre che politica, che la destra ha un senso soltanto se si fonda su valori e principi non negoziabili nella consapevolezza di rappresentare una vasta e variegata gamma di interessi, bisogni, ideali. È perciò autolesionistico cercare ossessivamente motivi di distinzione nella “destra plurale”, mentre , invece, sarebbe oggettivamente produttivo riconoscere nelle differenze l’intrinseca ricchezza di una soggettività che è andata definendosi nell’arco di oltre settant’anni, piuttosto che enfatizzare differenze e dissonanze dettate da personalismi che non di rado hanno nuociuto alla destra stessa nel gioco delle alleanze dal quale è uscita quasi sempre soccombente.
Ragioni identitarie e ragioni coalizionali – qualora la destra tornasse in qualche modo protagonista – potrebbero e dovrebbero convivere in vista del “bene comune”. Ed è la sfida che il Centro-destra, di marca berlusconiana, ha perduto e con esso la Destra che al suo interno si è dissolta. Gli elementi identitari della destra, dunque, prima sono andati dispersi, poi sono stati respinti, per poi essere ripudiate nel suo stesso ambito, quindi inesorabilmente “asfaltate” da Berlusconi. Inevitabile che se ne perdesse la memoria. Soprattutto per ciò che riguarda quei caratteri che l’avevano resa “originale” nel panorama politico.
A questo riguardo, il riferimento allo Stato – che con tutta evidenza è assente nella prospettiva e nella propaganda leghista – non significa in nessun modo regressione nello statalismo che ne è la degenerazione, portata alle estreme conseguenze da una lunga pratica partitocratica da parte di quelle forze politiche che lo hanno utilizzato per privarlo della sua nobiltà politica, occupandolo come una colonia. E si deve alla decadenza dell’idea di Stato il conflitto, oggi giunto al culmine, tra i poteri costituzionali, oltre all’abrogazione stessa di esso come centro della politica quando si è proceduto alla riforma del Titolo V della Costituzione voluto dalla Lega che oggi passa ad un incasso più cospicuo: l’autonomia rafforzata, vale a dire la disunione nazionale molto più perniciosa della paventata secessione d’antan. Cosa ha a che fare la Destra con una impostazione istituzionale di questo genere e che cosa significa essere “sovranisti” accettando la dissoluzione della nazione sovrana?
La destra se intende assumere un ruolo, e semmai le condizioni si realizzassero, preliminarmente dovrebbe dotarsi di un progetto culturale in grado di presentarsi come alternativa valoriale e sistemica. La decadenza italiana è il frutto di una lunga sedimentazione culturale, a cui far risalire la decomposizione civile del Paese, prodotta dalla egemonia relativista a fronte della quale non v’è ancora stata la doverosa reazione che ci si attendeva. Su questo terreno la destra ha dimostrato in maniera preoccupante la sua assenza. E non ci sembra che ciò che viene spacciato per Destra si ponga minimamente il problema.
Probabilmente non è questa l’occasione per indicare i rimedi a tale insufficienza, ma basta qui osservare che quanto viene proposto come cultura di massa innanzitutto è assolutamente omologato agli stereotipi del laicismo di cui è permeata la nostra società, dell’indifferentismo morale, del relativismo etico. Ed è questa una battaglia che la destra ha lasciato cadere e che non dovrebbe esimersi dall’affrontare poiché connessa alla difesa dei valori della persona che non sono in contrasto con quelli della nazione intesa come “comunità di destino”, né dello Stato quale custode del “bene comune”.
Un simile progetto non può prescindere dalla considerazione che la società civile vada conquistata prima di tutto con la forza delle idee, di un pensiero. Non è certo riprovevole ritenere che di fronte ad una società come quella italiana, secolarizzata e scristianizzata, si debba dispiegare un coerente piano contro la sua stessa decadenza. Gli strumenti sono quelli della cultura declinati in tutte le espressioni possibili ed immaginabili, capaci di sensibilizzare una vasta opinione pubblica ed indurla a prendere consapevolezza della decadenza.
Questo è lo spettro che abbiamo davanti e di fronte al quale non possiamo far finta di nulla. La nostra nazione sta esaurendo giorno dopo giorno la sua vitalità, risente di uno svuotamento culturale e spirituale; è ripiegata su se stessa fino ad apparire rattrappita, lontana dal prendere parte ai grandi processi innovativi che avvengono nella sfera del sapere; rinunciataria, soprattutto per responsabilità delle sue élites intellettuali, non riesce ad occupare la scena internazionale neppure quando l’occasione per manifestare un certo protagonismo è alla portata.
Qualche anno fa l’Italia venne espulsa dal progetto Genoma, del quale i nostri scienziati erano stati iniziatori e protagonisti, perché i governanti del tempo non ne colsero l’importanza e non offrirono adeguata copertura. Se l’Italia non torna a giocare un ruolo da protagonista nel campo della ricerca, dell’innovazione, della cultura umanistica (dove è sempre stata all’avanguardia), delle politiche demografiche ed identitarie invecchierà prima di quando si pensi, non sarà competitiva, si spegnerà.
È di questo che la destra dovrebbe farsi carico in maniera evidente e riconoscibile anche per non lasciare agli avversari la possibilità di polemizzare su questo terreno quando loro sono responsabili della decadenza culturale del nostro Paese avendo utilizzato le leve culturali soltanto per stabilire una discutibile egemonia finalizzata a piegare la società civile all’uniformità di un indirizzo politico.
La libertà è soprattutto libertà della cultura. Per poterla praticare e rendere la società italiana realmente pluralista c’è bisogno di un impegno prioritario.
La latitanza culturale che è stata svariate volte rimproverata alla destra, per non dire al Centrodestra berlusconiano, non senza ragione, prendiamola come uno stimolo ad uscire allo scoperto. Buttiamo via i fantasmi del passato agitati frequentemente come alibi – l’egemonia della cultura cattocomunista, la chiusura delle istituzioni culturali, l’irreggimentazione degli intellettuali e via ricordando – e guardiamo in faccia la realtà.
La destra potrebbe avere l’occasione di invertire la rotta nel rispetto più rigoroso di tutte le voci che formano la cultura nazionale, per esprimersi al meglio delle sue possibilità, per mettersi in sintonia con la maggioranza degli italiani i cui valori più profondi sono stati nel passato così poco e male rappresentati.
Insomma, la cultura come priorità dovrebbe essere il segno distintivo di una identità operante che si fa politica. E allora viene facile e spontaneo chiedersi se non sia il caso di precisare che il riconoscimento delle culture non è il preludio alla dissoluzione della cultura nazionale che ne è il compendio; se non occorra incentivare lo sviluppo del senso critico innestando maggiore cultura umanistica nell’educazione scolastica che non vuol dire dare meno peso alla conoscenza scientifica; se non bisogna incrementare lo studio della storia; se non è opportuno che la cultura popolare venga immessa in circuiti attraverso i quali potrebbe essere maggiore e migliore la sua fruizione da parte della comunità in grado di sentirsi tale soltanto se si riesce a far emergere le sue caratteristiche identitarie racchiuse appunto in sentimenti profondi che qualificano talvolta le culture talvolta nascoste.
Nella destra ritrovata, dovrebbe farsi strada l’esigenza di dare vita ad un programma politico che coniughi le esigenze particolari con quelle, per così dire, globali. In particolare, ritengo sia possibile tenere unita la prospettiva di una soddisfacente governabilità con quella dell’invenzione di un sistema di interventi mirati alla modernizzazione del Paese. La questione delle riforme, a tale riguardo, è cruciale. Una vecchia idea è ritornata ma in forme inappropriate se non sbagliate, utilizzata polemicamente se deprivata della sua vera essenza: la sovranità.
Pretendere riconoscimento e rispetto significa riconoscere e rispettare: culture, tradizioni, religioni, sentimenti, memorie. Ma significa anche cominciare a dare qualche risposta alla domanda: quali valori governeranno l’era globale? E ancora: è compatibile la salvaguardia delle identità con le esigenze di quella che viene chiamata la “comunità mondiale”? E poi: come rispondere, sempre che risposte vi siano, all’economia protesa nella ricerca di utili a breve termine di fronte alle ricorrenti crisi ecologiche, climatiche, agricole? E infine: riteniamo che la povertà (centomila esseri umani muoiono di fame o in conseguenza di essa ogni giorno), i mutamenti climatici, le malattie endemiche, la desertificazione, l’insicurezza alimentare non debbano riguardarci, non debbano riguardare uno schieramento di forze politiche capace di adeguare le loro culture alla decifrazione dei grandi eventi?
Scriveva Franz Kafka: “Lontano, lontano da te, si svolge la storia mondiale, la storia mondiale della tua anima”. Una storia che non ammette pause di idee e di progettualità; che esige una nuova cultura politica per rispondere alla domande che una umanità sempre più dolente, incerta, confusa, pone; che si alimenta di una grande ambizione: contribuire alla formazione di una società autenticamente plurale nella quale le vecchie, ma mai tramontate idee, della solidarietà e della partecipazione siano centrali al punto di rivitalizzare lo Stato- nazione (al quale personalmente non vedo alternative) dalla cui sopravvivenza dipenderà il destino, nel mondo globale, delle specificità, delle differenze, delle culture appunto, la cui difesa, mai come oggi, innova il concetto stesso di libertà: tanto più si è liberi quanto più ci si preserva di fronte all’aggressione dell’omologazione, del “pensiero unico”, della riduzione dell’essere umano alla dimensione dell’elementare consumatore.
Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, come la politica non cominci e non finisca nella pratica parlamentare, né tantomeno nelle gherminelle partitiche, e men che meno nelle ostilità perseguite come se la politica fosse una guerra continua . Insomma, è necessario riscrivere nuove regole da parte di tutti coloro che ambiscono alla pacificazione affinché l’inclusione, la tolleranza, la comprensione e la difesa delle identità non siano materiali di propaganda, ma vitali risorse da coltivare e far crescere.
C’è ancora nella società italiana una grande attesa per ciò che la destra ritrovata dovrebbe fare. Da essa non ci si aspetta niente di meno rispetto alle speranze che nel corso del tempo ha seminato. E vi sono cittadini che la percepiscono ancora, nonostante tutto, come una forza capace di innovare il sistema politico e di difendere i valori profondi della nazione italiana nel contesto di una necessaria ridefinizione dell’Europa senza la quale l’Italia non ha senso, come non l’avrebbe privata del nostro Paese l’unità continentale.
C’è spazio e c’è vita politica, insomma, oltre la pseudo-destra Salvinian-leghista, oltre il populismo ed il sovranismo, oltre le paure evocate per creare divisioni ed incomprensioni, oltre la disunione nazionale. C’è semplicemente la destra, sempre che la si voglia cercare seriamente e con l’intento di offrire un’alternativa politica agli italiani smarriti e confusi ai quali le rabberciate soluzioni politiche fanno male come se non di più delle menzogne.