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Belli addormentati d’Occidente, sveglia! Hong Kong e Mosca ci interrogano

C’è una lezione di coraggio cui attingere dalle piazze in protesta a Hong Kong e Mosca. Utile a risvegliare l’Europa e l’intero Occidente, inteso come comunità di Stati democratici riunita intorno al legame transatlantico con gli Stati Uniti d’America, dal torpore in cui sono caduti. I giovani radunati ogni giorno a Charter Square per condannare ormai non più solo la legge sull’estradizione ma anni interi di soprusi della Cina continentale in aperta violazione degli accordi per la transizione del 1997 sanno che nel migliore dei casi torneranno a casa a fine giornata con qualche ossa rotta. Nel peggiore non ci torneranno.

In molti oggi corrono frettolosamente a confrontare le foto dell’aeroporto di Hong Kong occupato dai manifestanti e attraversato da raid della polizia cinese sotto copertura alle ormai celebri istantanee del massacro di piazza Tienanmen. La rivolta a Sud della Cina però ha una sua unicità storica. A guidare chi si è riversato ogni mattina per le strade a difesa della libertà e dell’indipendenza dalla morsa di Pechino c’è un’intera generazione, quella più giovane, che è disposta a rischiare tutto, anche la vita, pur di difendere la sua identità. Secondo un sondaggio dell’Università di Hong Kong fra i giovani trai 18 e i 29 anni solo il 3,1% si identifica come cinese. La stessa rilevazione, ripetuta a giugno scorso, ha dimostrato che il 71% degli studenti si rifiuta di dichiararsi orgoglioso di appartenere alla Cina.

Questa generazione non ha conosciuto gli anni dell’amministrazione inglese. Ma non si è certo dimenticata dei 79 giorni di occupazione finiti in una violenta repressione intimata dal governo centrale nel 2014. Né può ignorare che gli occhi del mondo sono puntati oggi su quel che accade a Hong Kong. Non è un caso che nelle piazze e per i vicoli si vedano sventolare bandiere americane e inglesi. I ragazzi di Hong Kong guardano a Occidente e chiedono una risposta. L’appello è tutt’altro che retorico. Come ben spiega il direttore de La Stampa Maurizio Molinari, nel 2047 gli accordi anglo-cinesi del 1997 si estingueranno, aprendo al dissolvimento di quel che resta dell’autonomia e all’estensione della legislazione cinese sui suoi abitanti. Fu Londra a firmare quegli accordi e a Londra guardano oggi i giovani manifestanti in attesa di un segnale. Così come a Washington, Parigi, Berlino, Roma e tutte le capitali del mondo libero che si ritengono chiamate quantomeno a una severa presa di posizione contro i soprusi di Pechino.

Fatta eccezione per il presidente americano Donald Trump, che dopo qualche indugio ha rotto il silenzio e chiesto a Xi Jinping di fermare l’escalation, in Occidente il silenzio è assordante. Come d’altronde è assordante l’indifferenza, fatte salve poche frasi di circostanza, delle cancellerie europee di fronte alle proteste che da mesi portano in piazza a Mosca e nelle principali città russe migliaia di giovani, adulti e vecchi a chiedere di poter votare per candidati indipendenti alle elezioni. Non sono bastate centinaia di arresti a scuotere la coscienza dei governanti europei.

Di fronte a questa amara constatazione non resta da chiedersi se abbia ancora senso parlare di Occidente e comunità democratica prescindendo da quel che accade oggi, ora, in questo momento a Mosca e Hong Kong. Se ha senso parlare di difesa dei diritti umani e valori inalienabili quando vengono calpestati a poche centinaia di chilometri con la complicità di troppi silenzi.

No, certamente non ha senso. Se l’Occidente non riscopre qui e ora la sua identità si sveglierà un giorno senza averne più una. Val la pena allora concludere con quanto sentenzia Anne Applebaum sul Washington Post. “Ci siamo abituati all’idea che l’Occidente debba dare l’esempio all’Oriente, ma ne siamo ancora sicuri?”. No. La semplice verità è che “i giovani manifestanti in Russia e in Cina sono molto avanti a noi”.

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