A 65 anni dalla scomparsa di De Gasperi, avvenuta il 19 agosto nella casa di Borgo Valsugana, attingiamo alla memoria con l‘intento di capire il presente. A questo serve la storia, non ad allestire calendari di eventi e gallerie di eroi. Intriga scoprire, dietro le apparenze, anche la verità del paradosso. Abituati agli stereotipi correnti perdiamo di vista la sua irriducibilità al quietismo di stampo centrista-moderato.
Ha saputo cambiare il Paese, come oggi avremmo desiderio di fare, proprio evocando l‘età che gli appartiene per il segno lasciato nel secolo trascorso. La poderosa ricostruzione post-bellica, ovvero il passaggio dal mondo contadino alla società industriale, le trasformazioni di ordine epocale, quali ad esempio la riforma agraria e l‘intervento straordinario per il Mezzogiorno, la stabilità della moneta e la liberalizzazione del commercio verso l’estero, l’adesione al Piano Marshall, la scelta dell’Europa e l’ingresso nella NATO: sono questi e altri ancora, in quel frangente irripetibile di sfide e di successi, i tratti salienti del miracolo italiano.
In realtà De Gasperi non si sentiva destinato a guidare la nazione. Nell’isolamento patito durante il Ventennio aveva preservato indubbiamente la fede nella libertà. Tuttavia gli appunti di diario raccontano le confessioni di un uomo sempre tenace, sul piano politico e morale, ma incline a riflettere sulla fine della vita terrena. Fu rapido, in ogni caso, a cogliere i segnali del crollo imminente del Regime. Ritornò sulla scena pubblica, operando in prima linea nel CLN, con l’integrità e la forza della sua coerenza. Di questo dobbiamo ragionare, per non scivolare nell‘agiografia o nel ritratto deformato.
È vero, centrale rimane il 18 aprile, la rottura a sinistra e la vittoria su Togliatti e i suoi alleati; ma in quella impresa contrastante l’avanzata del movimento comunista, sotto la regia dell‘Unione Sovietica di Stalin, operava la stessa visione della libertà che ebbe inizialmente a sfidare le mire totalitarie del fascismo, rese visibili ed esecrabili dalla “secessione parlamentare” dell‘Aventino. Di qui, insomma, prende inizio un percorso che lega il prima e il dopo dell‘esperienza democratica degasperiana.
Mussolini andava fermato a tutti i costi. Il tempo della sua conversione all’opzione illiberale e autoritaria, con la brutale rivendicazione dei pieni poteri, matura progressivamente dopo le elezioni del 1924, vinte dal PNF con largo consenso dei partecipanti al voto e senza gli additivi premiali della legge elettorale iper-maggioritaria, la cosiddetta “Legge Acerbò”, strappata poco tempo prima a un Parlamento sfibrato e perlopiù supino. Sulla via trionfale di Mussolini si staglia però l‘omicidio di Giacomo Matteotti (10 Giugno 1924) e la dura risposta, destinata nell’arco di un biennio ad alimentare alterne speranze, ma a concludersi nel fallimento dei gruppi parlamentari di minoranza. Con l’Aventino, simbolo della sfortunata battaglia in difesa della libertà, muore la democrazia nata e cresciuta sotto la bandiera del liberalismo post-risorgimentale.
De Gasperi colse allora la necessità di avvicinare i popolari anti-mussoliniani, i socialisti anti-massimalisti, i liberali e democratici anti-giolittiani – una sorta di anticipazione dell’alleanza centrista e quadripartitica del dopoguerra – per impedire l’approdo reazionario del partito unico fascista. Fu aventiniano convinto e difese, all‘indomani della caduta del Regime, la posizione coraggiosa degli aventiniani. Al primo congresso della Dc, nella primavera del 1946, quindi a ridosso del plebiscito su Monarchia e Repubblica, nonché delle elezioni per l‘Assemblea costituente, impose il rispetto di una quota riservata in Consiglio nazionale ai “suoi” popolari, purché legati in modo diretto o indiretto alla vicenda dell’Aventino. Di sicuro incoraggiò la formulazione della III Disposizione transitoria e finale della Costituzione con la quale si sarebbe proceduto ad aggiungere agli eletti a Palazzo Madama, come Senatori di diritto, i parlamentari dichiarati decaduti (perché aderenti alla “secessione”) nella seduta del 9 novembre del 1926.
Dunque nel giudizio dello statista trentino, discorde alquanto dall’”anti-aventinismo” di destra e di sinistra, la ripresa della democrazia sulle macerie e le sofferenze della guerra doveva recare il timbro della originaria opposizione del biennio ’24-’26. La Resistenza ne era debitrice, perché senza la prima resistenza aventiniana, colpevolmente ignorata dal re Vittorio Emanuele III e perciò inibita nella sua estrema difesa delle norme Statutarie, anche il contributo di lotta e di sangue al fianco degli Alleati non avrebbe incarnato le ragioni più profonde e veritiere della nuova Italia.
Qual è la lezione, dunque, che possiamo trarre oggi da questa particolare rilettura del “paradigma democratico degasperiano”, non abitualmente evidenziato con la dovuta intensità? Innanzi tutto, abbiamo detto, emerge il richiamo al valore della coerenza: in politica, nel medio e lungo periodo, conta più di quanto si è disposti ad apprezzare. Poi, alla luce dei fatti storici, rinviene la valutazione di quanto sia essenziale nei momenti cruciali della vita politica l‘adozione di una condotta ferma e rigorosa, altrimenti non solo vince l‘arbitrio, ma nemmeno residua di contro, a beneficio di future riscosse, la pur esibita dislocazione sul fronte morale dell’opposizione. Infine si dimostra come il “centro” – e nessuno ha interpretato questa categoria politica (“il centro che guarda a sinistra”) più e meglio dello statista democristiano – non costituisca il luogo della mediazione fine a se stessa, bensì il momento complesso ed esigente della sintesi politica, e certo la più alta delle sintesi possibili.
La conclusione chiama in causa il coraggio e l’inventiva, non le facili scorciatoie del pensiero prevalente. Contrapporre sinistra e destra evoca il ripristino di un modello logorato. Oggi l’Aventino, come spirito che muove il paradosso, aleggia sulle singole coscienze. All’Italia serve in sostanza l’afflato di una nuova fiducia nel futuro, di una concentrazione forte e solidale, per andare avanti. Se contiamo di fronteggiare l’urto del neo-nazionalismo, preoccupati del suo debordare verso la radicalizzazione e il depauperamento della politica, abbiamo urgenza di riprendere a maneggiare un’idea di “centro liberal-popolare” che propugni, sulla scia dell’insegnamento degasperiano, l’unità delle forze di autentica radice democratica.
Non si occupa uno spazio politico, lo si determina e organizza sulla base di un’iniziativa che non abbia remore ad apparire dirompente.