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L’Europa al trivio

Parafrasando una nota espressione di John Maynard Keynes nella General Theory, potremmo osservare che gli europei sono oggi schiavi di tre economisti defunti: Hayek, Robbins e Keynes stesso.

Ancora oggi, nonostante siano passati sette-otto decenni dalle loro più brillanti riflessioni di economia politica, sono loro i protagonisti del dibattito pubblico sul futuro dell’integrazione europea.

Keynes suggeriva la necessità di un sistema d’istituzioni sovranazionali in grado di assicurare, a ciascun sistema economico e politico nazionale, il perseguimento di obiettivi di crescita e piena occupazione: un modello di tipo confederale. L’idea sottostante era che la democrazia è radicata nelle istituzioni nazionali e che ad essa debbano piegarsi le istituzioni sovranazionali, per quanto essenziali nell’assicurare una cooperazione costruttiva e non la degenerazione dei conflitti in guerre. Un’idea di buon senso, che si scontrò tuttavia immediatamente, alla Conferenza Monetaria di Bretton Woods del 1944, con la realtà: in particolare, all’epoca, con gli appetiti egemonici degli Usa, che posero il sistema economico e finanziario internazionale sotto la loro egida. Quando ciascuno persegue il proprio interesse, regna la legge del più forte.

Hayek, scettico sul fatto che i politici a livello nazionale potessero perseguire il bene comune e convinto quindi che agissero distorcendo il sacro meccanismo (dei prezzi) di mercato, anelava ad un sistema tecnocratico di istituzioni sovranazionali volto a togliere spazi di manovra alle malate democrazie nazionali: un modello di fatto tecnocratico, che allontana la politica dall’economia. L’idea alla base dei suoi ragionamenti era che le democrazie nazionali sono facile preda di degenerazioni più o meno esplicitamente totalitarie e di interessi corporativi; e che gli individui si salvano dalle loro grinfie soltanto diminuendo gli spazi entro cui esse possono agire.

Robbins riteneva che lo Stato nazionale come forma di tutela degli interessi degli individui fosse solo un accidente transitorio della storia; che le due guerre mondiali avessero mostrato come le sovranità assolute ed esclusive degli Stati fossero incapaci di soddisfare i molteplici ed interdipendenti bisogni degli individui; e che fosse necessario creare una democrazia sovranazionale multilivello, nella quale si rispecchiassero le molteplici identità collettive che ciascuno di noi possiede, da quelle locali a quella universale. Per questo, aspirava ad un modello di federalismo costituzionale, mai sperimentato prima nella storia umana, se non in forme parziali e semplificate nella seconda Convenzione di Filadelfia che dette vita agli Stati Uniti d’America.

Per quasi settant’anni, almeno dal fallimento (forse dovremmo dire ‘sabotaggio’) della Comunità Europea di Difesa e della Comunità Politica Europea nell’agosto del 1954, ci siamo convinti in Europa che la terza opzione (quella di Robbins) fosse impossibile da realizzare e che potessimo correre solo lungo il crinale del bivio fra Keynes ed Hayek, fra il perseguimento di un modello confederale che assume come unici centri di potere legittimo le democrazie nazionali e un modello tecnocratico che le svuota di ogni senso.

L’intero percorso d’integrazione europea può essere letto come il risultato di una tensione continua fra la tentazione di tornare indietro alla salvaguardia delle nazioni (Keynes), oggi forte come mai era accaduto in passato, e l’incapacità di concepire un’Europa che andasse concretamente oltre un modello tecnocratico (Hayek), verso una democrazia sovranazionale multilivello (Robbins). Abbiamo ritenuto in sostanza di essere di fronte ad un bivio fra nazionalismo e tecnocrazia; un bivio funzionale alle élite al potere, certe di poter essere sempre e comunque vincenti: attraverso la riappropriazione delle leve del comando a livello nazionale, o attraverso la compartecipazione a quella tecnocrazia sovranazionale che detta le regole dell’economia alle democrazie nazionali.

Questa situazione, tutto sommato stabile proprio per gli interessi delle élite al potere, è entrata in crisi. L’avvento delle nuove tecnologie di diffusione delle informazioni e dei social media hanno ampiamente messo in luce gli aspetti fallaci ed antidemocratici della tecnocrazia, determinando il risorgere di un nazionalismo esplicito che rischia di essere ancora più radicale del sogno keynesiano.

È venuto il momento di prendere consapevolezza che non si tratta di un bivio, di una scelta binaria. Ma che esiste, mai realmente sperimentata, una terza via, rimasta latente dagli anni Cinquanta ad oggi e certo difficile da portare avanti, proprio perché configura uno scontro aperto fra interessi dei cittadini (soddisfare i loro molteplici ed interdipendenti bisogni) ed interessi delle classi politiche (acquisire, gestire e mantenere il potere): il federalismo costituzionale.

È venuto il momento di invocare e perseguire l’obiettivo di un patto costituente fra i cittadini europei per la creazione di una democrazia sovranazionale multilivello, capace di superare il conflitto fra democrazia e mercato, fra politica ed economia, perché ricondotte entrambe dentro un sistema di scelte collettive coerente con la dimensione multilivello delle nostre identità ed appartenenze collettive.

È l’unica, urgente, strada che l’Europa ha davanti a sé per dare ancora un senso al suo progetto iniziale di esperimento/esempio per la costruzione di una kantiana ‘pace perpetua’; sia nei confronti del mezzo miliardo dei propri cittadini, sia come attore globale nelle sfide sempre più agguerrite sul piano internazionale. Senza un intervento coraggioso e consapevole dei cittadini europei per essere finalmente arbitri del proprio destino, sarà la storia – coi suoi rapporti di forza – a decidere chi fra i tre economisti avrà la meglio nelle vicende europea e mondiale. E non è detto che ci piaccia.


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