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I ministri competenti? Una sconfitta della politica. Le riflessioni del prof. Curini

“Il modello dei competenti in politica è diventato una sorta di religione laica: la ricerca dell’eroe immacolato. Ma è un modello, quello ingegneristico, che non considera minimamente le esigenze dell’arena politica dove le dinamiche sono quelle del conflitto tra valori – checché ne dicano che destra e sinistra siano concetti superati – e la ricerca del consenso”. Le parole sono di Luigi Curini professore di Scienza politica alla Statale di Milano. Un anno fa, con Beatrice Magni, firmò su La Lettura, l’inserto culturale del Corriere della Sera, un interessante articolo intitolato “L’equivoco dei competenti”.

Formiche.net lo ha cercato per una conversazione in giorni in cui il tema è tornato caldo.

“Beatrice ed io siamo stati critici sull’utilizzo della conoscenza in ambito politico. In realtà un discreto numero di studiosi all’interno della scienza politica sono scettici sull’utilizzo della conoscenza e quindi della competenza nel terreno politico. L’approccio politico e l’approccio ingegneristico sono ambiti decisamente diversi. E la visione ingegneristica, per cui quando i politici hanno un problema da risolvere si affidano all’esperto di turno, è una visione che non tiene conto della differenza dei contesti. Il mondo pratico è in conflitto con il mondo ideale. Quel che poi accade è che il politico utilizza questa determinata competenza quando gli fa comodo. Non è una ricerca della competenza fine a sé stessa, è solamente una soluzione coerente con i problemi che in quel determinato contesto sta affrontando un determinato uomo politico o una determinata parte politica. Non sono le conoscenze che vanno alla ricerca dei problemi da risolvere ma sono i politici, sulla cui testa pende sempre la spada di damocle del consenso, a cercare la competenza più coerente con gli obiettivi che si sono posti”.

È insomma un’operazione strumentale.

“Ovviamente sì, non potrebbe essere diversamente. La dinamica politica è diversa da quella scientifica. E poi c’è un altro aspetto che io non considero meno pericoloso. L’idea ingegneristica che saranno i competenti a selezionare le scelte migliori per noi è fallacemente tecnocratica. Saremmo fuori dall’ambito politico, la tecnocrazia si posiziona fuori dal contesto democratico. La sfida tecnocratica è molto più rischiosa, contribuisce a delegittimare il ruolo di disintermediazione della rappresentanza politica che è un aspetto fondamentale delle democrazie liberali. Sono concetti importanti. La competenza è certamente importante in politica ma è diversa rispetto agli obiettivi primari che sono la ricerca del consenso e il portare avanti visioni del mondo che confliggono con altre. Il problem solving non è certo la principale caratteristica richiesta all’interno di un’arena democratica. Sarebbe un approccio naif, non funziona e per certi versi anche pericoloso. Il culto della competenza è rischioso”.

Viene in mente Ciriaco De Mita con una delle sue frasi più ricorrenti: “Il compito di fare politica è creare politica”. La debolezza politica acuisce questa ricerca della competenza?

“In Italia abbiamo l’ossessione della ricerca del tecnico. Questa ossessione ha avuto fasi importanti. Innanzitutto nel 93 col primo governo tecnico che fu quello a guida Carlo Azeglio Ciampi. Poi c’è stato, quindi Monti. Da nessuna parte, nelle democrazie contemporanee europee, si assiste a questa ricerca spasmodica del tecnico. In un contesto in cui la politica viene percepita come molto debole, molto di più rispetto agli altri paesi europei. E la politica italiana sa di esserlo. La fine della prima repubblica ha lasciato i partiti più deboli, senza intermediazione, senza sedi sul territorio. I cittadini sono sfiduciati nei confronti della politica. E quella dei tecnici, quella della competenza, è diventata una sorta di religione laica, una scorciatoia estrema senza pensare che le dinamiche ingegneristiche sono diverse rispetto a quelle politiche. È anche – prosegue – una soluzione autoassolutoria che si inscrive nella strada della ricerca dell’eroe, dell’uomo immacolato in grado di ricreare un clima di fiducia con i cittadini. L’illusione di poter rifugiarsi in soluzioni semplici e immediate, e che siano poco problematiche. L’eroe religioso laico appunto, l’eccezione in grado di frantumare una situazione incancrenita e in grado di salvarci. Ci risparmia il faticoso percorso del purgatorio, la traversata del deserto. E, temo, sarà sempre di più così. I social, la tecnologia, hanno rafforzato la personalizzazione della politica, la ricerca dell’eroe. Negli ultimi vent’anni abbiamo assisto a uno stravolgimento, sono morte le ideologie, le democrazie liberali nemmeno si sentono tanto bene, c’è stata la rivoluzione tecnologica”.

Come se ne esce?

“Da questo corto-circuito? È molto difficile dare una risposta. Ci sono due strade: o si procede per piccoli passi, ricostruendo il rapporto col territorio, alimentando un’idea diversa di politica, lentamente percorrendo una traiettoria virtuosa; oppure con uno shock in grado di produrre una reazione da parte del corpo della società. Non so quale delle due strade sia preferibile percorrere. Ci sono i pro e i contro per entrambe. Sono un po’ pessimista. Gli ultimi di trent’anni di politica italiana ci hanno lasciato questa crescente disaffezione nei confronti del sistema politica. Un tempo avrei detto che ne saremmo usciti agganciando l’Europa ma oggi anche questa soluzioni mostra le sue lacune”.

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