Skip to main content

Intesa Pd-M5S? Solo un miracolo… Polillo spiega la complessità del puzzle

Le semplici alchimie parlamentari stanno mostrando la corda. I due partiti coinvolti nel possibile esperimento giallo-rosso non sembrano essere in grado di reggere al possibile connubio. Militanti imbufaliti, proteste crescenti sul web, dirigenti delle due formazioni divisi. Un misto di dubbi, di ambizioni personali dissonanti, di culture politiche tutt’altro che omogenee. Una babele che ha il segno della fragilità. Forse, alla fine, prevarrà l’istinto della sopravvivenza. Ma, nel frattempo, che ne sarà del Paese? Quali azioni si potranno intraprendere per dare risposte alle attese degli italiani?

Momenti di burrasca dovevano essere messi nel conto. Si dice che chi semina vento, raccolga tempesta. E di vento, in questi ultimi quindici mesi, ne è stato seminato a bizzeffe. Maggioranza ed opposizione non solo si sono divise, com’è naturale. Ma si sono insultate in modo sanguinoso. Il partito di Bibiana. Si sono considerati nemici, più che avversari. Coinvolgendo in una rissa permanente i propri supporter e militanti. Poi d’incanto: “contrordine compagni!”.

Purtroppo o per fortuna le cose non funzionano così. Non riuscì nemmeno ad un leader prestigioso, come Enrico Berlinguer, a convincere la sua base della necessità del “compromesso storico”. Bastò un anno per mandare in fumo un lavoro costruito con pazienza e dedizione. Senza contare che alle spalle di quel progetto era stata la lunga predicazione togliattiana: la teoria dell’incontro tra le masse popolari. Cattolici e comunisti uniti nella democrazia progressiva. Allora non fu nemmeno necessario partecipare al governo, affidato a Giulio Andreotti. La semplice astensione causò il rifiuto di molti elettori di sinistra, costringendo lo stesso leader comunista a rinunciare a quell’esperimento. Sconfitta che segnò, poi, la nascita del CAF: Craxi, Andreotti, Forlani. Ed il tramonto dello stesso Berlinguer.

Rispetto ad allora le difficoltà sono, addirittura, maggiori. C’è – è vero – la possibile sponsorizzazione dell’Europa. Così evidente nel nome (Orsola) che Romano Prodi ha voluto dare con la sua benedizione, mentre in passato l’ostilità americana era palpabile. Ma gli scogli sono più acuminati. Chi deve guidare il governo? Questo è il primo problema. Dato lo squilibrato rapporto di forza (due ad uno) tra i due possibili partner, è chiaro che occorra un uomo di garanzia. Altrimenti l’accordo possibile rischia di trasformarsi, fin dall’inizio, in un patto leonino. Quindi no ad un Conte bis. La foglia di fico della discontinuità è solo un artificio dialettico, che nasconde la sostanza delle cose.

La crisi del precedente governo, del resto, qualcosa dovrebbe insegnare. Essa inizia all’indomani del voto europeo, che rovescia come un guanto i precedenti rapporti di forza tra i due protagonisti. Logica avrebbe voluto che si giungesse rapidamente ad una rinegoziazione delle basi programmatiche e della struttura di governo. Le “poltrone”, da tutti evocate in modo tartufesco, c’entrano nulla. Si doveva, al contrario, rispettare il popolo che aveva votato, sebbene quelle elezioni riguardassero l’Europa, e tradurre quel diverso consenso in un mutamento di uomini e di programmi. Così funziona là democrazia rappresentativa.

Le resistenze mostrate dai 5 stelle, in quell’occasione, sono state anche la conseguenza del loro diverso modo di intenderla. Non più la tradizione occidentale, ma la “misteriosa” rete Rousseau che tutto può e tutto può determinare, grazie all’oscura gestione da parte di una società di software. Tema al quale non si intende rinunciare. L’insistenza riposta nel taglio dei parlamentari ha una tripla valenza. Vuole essere l’elemento simbolico di quel passaggio, far capire al Pd quale sarà la musica che saranno costretti ad ascoltare (una sorta di resa, come contropartita della loro partecipazione al Governo), blindare, infine, il più possibile la legislatura, come arma di pressione nei confronti di quei parlamentari che, con ogni probabilità, dovranno dire addio alla carriera appena intrapresa.

Nel Pd il ragionamento è esattamente agli antipodi. La democrazia parlamentare, quella nata dalla Resistenza, non si tocca. Tra i due partner dell’eventuale prossimo governo dovrà esservi, quanto meno, “pari dignità”. Altrimenti non è interesse di Zingaretti – forse lo è di qualche altro dirigente – mettere la testa nella bocca del leone e sperare che l’animale non abbia, nel frattempo, un attacco di fame. Chiede, quindi, garanzie. Che può darle solo un Presidente del consiglio autorevole e, per quanto possibile, super partes. Il taglio dei parlamentari, infine, può anche andar bene, ma nel quadro di una riforma costituzionale più ampia, che garantisca, al tempo stesso, rappresentatività e governabilità.

Differenze pesanti come pietre. Su cui il Pd ha costruito, negli anni, la sua organizzazione. Militanti, quelli che sono rimasti, che hanno tuttavia il loro peso. Ed i cui umori sono in grado di condizionare fortemente i singoli dirigenti. Un’anomalia, non v’è dubbio, nel panorama politico italiano. La vecchia “giraffa”, seppure malandata di cui parlava Palmiro Togliatti, per spiegare l’originalità del suo partito. Troppi quindi gli elementi in gioco di un gigantesco puzzle, di difficile incastro. Potranno ricomporsi? Non è escluso, ma sarebbe più un miracolo, che non il frutto della normale abilità dei giocatori.


×

Iscriviti alla newsletter