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F-35, l’ultima chiamata per l’Italia. Dentro o fuori: tocca a Conte decidere (come la Tav)

Sette mesi. A tanto ammonta il ritardo del governo italiano sul dossier F-35 nel definire gli impegni futuri sul programma. I rischi maggiori sono sul lato industriale, con lo stabilimento novarese di Cameri che potrebbe trovarsi senza velivoli da assemblare dal 2023. Poi, c’è il fattore strategico. Dagli Stati Uniti è già emerso un certo fastidio per l’indecisione italiana, da sommare alle preoccupazioni sui rapporti con la Cina e su 5G per cui Formiche.net ha lanciato un appello al governo affinché riscopra (con scelte concrete, oltre i proclami) una postura nettamente occidentale.

ULTIMA CHIAMATA: FINE SETTEMBRE

Il termine ultimo per non avere ripercussioni è fine settembre. Entro allora, l’Italia dovrà comunicare al Joint program office (Jpo) degli Stati Uniti le proprie intenzioni (il committment) circa i lotti di produzione 15, 16 e 17, che copriranno il periodo 2023-2027. Se non dovesse arrivare una conferma degli impegni presi (nel complesso per 90 velivoli, già ridotti in passato rispetto agli iniziali 131), il gap sarebbe incolmabile, costringendo la Faco di Cameri, cuore della partecipazione nazionale al programma Joint Strike Fighter, a lavorare nel 2023 solo su tre velivoli olandesi, restando senza lavoro l’anno successivo. Quatto sono infatti gli anni necessari alla programmazione industriale per mettere in moto il processo produttivo, chiamando in causa l’intera catena di fornitura con i cosiddetti ordini “extra long lead items”.

LA LETTERA TRA CONTE E TRENTA

Finora, l’Italia è impegnata all’acquisto di 28 velivoli totali (compresi quelli già consegnati) fino al 2022, comprendenti gli F-35 dei lotti di produzione che arrivano al quattordicesimo. Per il quindicesimo non c’è traccia delle volontà italiane. Poco dopo l’insediamento a palazzo Baracchini, il ministro della Difesa Elisabetta Trenta aveva avviato una “valutazione tecnica” sul programma, le cui conclusioni sono state poi inviate al premier Giuseppe Conte. Ora, il dossier sarebbe tornato al dicastero della Difesa, dove la lettera di committment da inviare al Jpo parrebbe finita nel vortice dei passaggi tra diversi uffici. L’impressione è che il M5S non voglia esporsi su un tema che, dopo il caso Tav, è destinato a disattendere un altro cavallo di battaglia dei tempi dell’opposizione. Eppure, le logiche politiche mal si applicano a questioni su cui sono in gioco evidenti elementi strategici e industriali. Difatti, i rischi sono concreti, considerando che l’Italia è l’unico Paese che ancora non ha manifestato quali impegni intenda assumere per il lotto 15.

I RISCHI PER CAMERI

A rischiare, come detto, è prima di tutto lo stabilimento di Cameri. Unica linea in Europa per l’assemblaggio e la verifica finale dei velivoli di quinta generazione, il sito si occupa degli F-35 italiani e olandesi, nonché della realizzazione di un cospicuo numero di assetti alari. Tali attività impegnano un personale di circa 1.100 unità, altamente qualificate e specializzate. Rallentare (o arrestare) i lavori significa accumulare un gap capacitivo notevole, con ripercussioni occupazionali e di costi. A ciò si aggiungono i timori per la catena di fornitura che lavora sul programma, la quale sarebbe inevitabilmente coinvolta in una riduzione di ordini con effetti potenzialmente determinanti per alcuni, considerando in particolare l’alta percentuale di piccole e medie imprese che popolano il contesto produttivo nazionale.

UNA QUESTIONE DI CREDIBILITÀ

Un colpo deciso sarebbe inoltre assestato alla credibilità di Cameri come centro per il possibile assemblaggio di velivoli di altri Paesi, sulla scia di quanto fatto con l’Aia. Il programma internazionale procede spedito. Belgio e Polonia hanno scelto l’F-35 per le rispettive Aeronautiche, mentre l’Olanda potrebbe acquistarne altri esemplari. In più, il caccia di quinta generazione è attualmente in gara in Svizzera e Finlandia, senza trascurare le opportunità che potrebbero arrivare dall’esclusione (ormai ufficiale) della Turchia dal programma, con conseguente riallocazione delle attività finora condotte dalle industrie di Ankara.

IL RAPPORTO CON GLI STATI UNITI

A tutto questo va aggiunto il tema del rapporto con l’alleato d’oltreoceano. È ormai chiara la rilevanza che l’amministrazione Trump attribuisce al programma Jsf nei rapporti con i partner strategici (si pensi alla sofferta rottura con Ankara, o al rilancio delle relazioni con Varsavia). Un certo fastidio sulla posizione italiana è d’altronde già trapelato a più riprese, soprattutto quando era emerso negli scorsi mesi il problema dei ritardi nei pagamenti a fronte di forniture già realizzate. Se a ciò si aggiungono le insofferenze sulla postura italiana nei confronti della Cina e sul tema del 5G, si manifesta chiaramente quanto a rischio possa essere l’ambizione del ruolo di principale alleato Usa all’interno dell’Unione europea. Insomma, il rischio di perdere punti è più che concreto. Per l’Italia, questa è l’ultima chiamata.


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