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Bye bye sicurezza. Così il governo ha affossato il decreto 5G. Parla Urso (FdI)

Un passo avanti e due indietro. Sulla sicurezza nazionale “il governo gialloverde continua a tessere una tela di Penelope”, dice Adolfo Urso, senatore di Fdi e vicepresidente del Copasir (Comitato parlamentare per la Sicurezza della Repubblica, ndr). Prova ne è il balletto che negli ultimi mesi si è consumato sulla nuova normativa per il 5G. Finita nel dimenticatoio di Camera e Senato, e forse definitivamente affossata con le ferie degli onorevoli.

Urso, il decreto sul 5G è già lettera morta?

Bisogna chiederlo al governo. Prima ha creato un ombrello protettivo con uno strumento normativo, il decreto legge, che risponde a criteri di necessità e urgenza. Ora ci ha ripensato, mentre sui giornali si rincorrono interventi e interviste del ceo di Huawei Ren Zhengfei che ringrazia l’Italia per non aver escluso dai bandi l’azienda.

I cinesi hanno fatto pressioni?

Non voglio fare connessioni immediate, ma qualcuno deve esserci dietro questo repentino cambio d’idea. Il Senato aveva assegnato alle commissioni competenti l’esame del decreto, ma non se ne sono più occupate. Eppure i tempi c’erano. Poteva essere esaminato in questi giorni a palazzo Madama e poi approvato dalla Camera il 9 settembre.

È stato proposto di affrontare la materia nel disegno di legge sulla sicurezza cibernetica alla Camera.

Una soluzione grottesca. Prima dichiarano che la materia presenta i requisiti di necessità e urgenza, poi la vogliono affidare al lungo iter di un disegno di legge? Non ha senso annunciare in pompa magna un ombrello protettivo, poi chiuderlo e aspettare di fabbricarne un altro con tutta calma.

C’è la firma dei Cinque Stelle sull’affossamento del decreto?

Questa è la lettura che danno i giornali. Io mi limito a constatare una serie di interventi rivendicativi e di plausi al governo da parte di multinazionali asiatiche, con buona pace degli allarmi che i nostri alleati internazionali avevano diretto al governo.

Sabino Cassese sul Corriere della Sera ha criticato il decreto perché non restringerebbe a sufficienza l’ambito di intervento statale.

L’intervento era piuttosto mirato. Il decreto legge di marzo, non a caso varato durante la visita a Roma del presidente del Partito comunista cinese Xi Jinping, estendeva la normativa sulla golden power del 2012 alla banda larga e sottoponeva anche le apparecchiature al controllo già previsto su investimenti e creazione di società o partecipazioni azionarie. Il decreto di luglio allungava giustamente i tempi di verifica del governo. Ora è stato affossato, quando le principali aziende nel settore delle telecomunicazioni hanno già superato la fase sperimentale del 5G e lanciato operazioni commerciali.

Per il giurista allargare la normativa della golden power al 5G limita il diritto d’impresa.

I decreti adeguavano la normativa italiana a quanto previsto dalla Commissione Europea che con il regolamento sullo screening degli investimenti esteri ha esteso l’intervento statale a settori strategici non previsti dalla nostra golden power, come i media, la sicurezza elettorale e alimentare, la biotecnologia. Solitamente l’Ue è un buon arbitro sulle regole del mercato e i diritti delle imprese, se ha ritenuto di intervenire un motivo c’è.

Il Mise di Di Maio ha puntato molto sullo sviluppo della rete 5G. Quanto è stato fatto in questi mesi?

Poco, il ministero è paralizzato, su tutti i dossier. Di Maio e i suoi non sanno neanche quanti siano i tavoli di crisi. Noi sì: 150. Sa quante volte si sono riuniti al Mise? 82, nemmeno una riunione per tavolo. Il decreto imprese non ha l’ombra di una soluzione industriale, estende la cassa integrazione e qualche ammortizzatore sociale con l’unico scopo di accompagnare i lavoratori al reddito di cittadinanza.

Il famoso Cvcn (Centro di valutazione e certificazione nazionale) previsto dal decreto Gentiloni e attivato a febbraio da Di Maio non ha ancora scaldato i motori.

È evidente che all’interno dell’esecutivo si combattono due tendenze opposte. Di volta in volta prevale chi vuole garantire la sicurezza nazionale e la collocazione internazionale del Paese e chi è più sensibile ad altri interessi e partner e usa strumenti normativi per allargare le maglie.

A proposito di collocazione internazionale, c’è un altro tema di cui il Parlamento si è disinteressato: le proteste a Hong Kong represse a suon di arresti e gas lacrimogeno. Il silenzio italiano è assordante.

La disattenzione sul tema da parte della politica è desolante. A Hong Kong non si gioca il futuro della Cina ma dell’intero Occidente. Una volta si inviavano le arance ai carcerati per sopravvivere in cella. Oggi la Regione Sicilia si vanta di inviare le nostre arance in Cina. Una triste coincidenza.

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