A bocce quasi ferme, e a governo Conte bis quasi fatto, ecco che l’attenzione programmatica si sposta da un’alleanza nuova e da tarare, come quella tra Pd e M5s, al campo del centrodestra o, come è stato ribattezzato, del destra-centro.
Ovvero, quale percorso prenderà ora la Lega post crisi? In che misura i grandi elettori salviniani, come i Governatori delle maggiori Regioni italiane o i grandi nomi dell’industria del nord, gli chiederanno di conto? E ancora, forse il quesito più dirimente guardando al prossimo lustro: le rotte parallele di Berlusconi e Salvini torneranno a cementarsi con convergenze strategiche come fu per i primi anni tra il Cav e Bossi, oppure no?
Pinuccio Tatarella, vicepremier e padre spirituale della destra di governo italiana, diceva che i tempi in politica sono tutto, sono il pan. Una buona idea, ma coniugata nel momento sbagliato, perde la propria propulsione. Tatarella, che fu l’ispiratore della mutazione genetica della destra, da megafono di opposizione tout court a forza conservatrice e bipolare dotata di una cultura di governo, può essere il grimaldello per aprire finalmente un ragionamento tutto intestino a quel mondo che, paradossalmente, è potenziale maggioranza in Italia.
Al netto delle parole del patron di Rcs Urbano Cairo, che dalle colonne del Foglio ha praticamente lanciato un manifesto programmatico che lascia presagire nel breve periodo un impegno diretto, l’analisi va poggiata sui players che sono attualmente in Parlamento: Forza Italia e Lega.
Silvio Berlusconi, pur essendo un leader ultraottantenne in calo di forze e di appeal elettorale, resta il volto italiano ancorato al Ppe. Certo, non ha avuto in passato un felice feeling con Bruxelles, ma il 2011 è ormai archiviato e oggi l’eurodeputato di Arcore è protagonista di un’altra fase: di matrice popolare, conservatrice, repubblicana e fortemente europeista.
Lo dimostra un passaggio di Berlusconi dopo le consultazioni al Colle in cui ha ribadito che “noi siamo un’altra cosa rispetto ai sovranisti”. Il Cavaliere è forse fiaccato nel fisico, ma non nella mente e ha messo il dito nella piaga. Tesi su cui è tornato, con altri accenti, anche il deputato azzurro Andrea Cangini quando ha detto che “Salvini non ha senso dello Stato”.
Il leader leghista, autore della crisi agostana, assoluta primizia italiana, al netto dei sondaggi che lo danno sempre in testa seppur in leggero calo, ha dalla sua la carta di identità e quindi un futuro ancora tutto da scrivere. Per cui il fatto che all’interno della Lega i colonnelli (parlamentari e non) inizino ad interrogarsi su quale sarà la nuova rotta del Capitano dopo la sbandata estiva è un segno che va colto. Perché proprio quel dibattito sulla collocazione internazionale potrà rivelare, più di selfie o tweet, le vere direzioni ed i relativi equilibri.
Non è passata inosservata, nella giornata campale in Senato che ha sancito la rottura plastica tra Conte e Salvini, la stretta di mano che il premier ha riservato a Giorgetti. Non un semplice colonnello, ma Sottosegretario uscente alla Presidenza del Consiglio, unica voce leghista davvero accreditata al Colle e uomo di ragionamento e di numeri, più che di piazza. Uomo che non è stato ascoltato però dal leader, così come invece riuscì a Tatarella che guidò Fini nel passaggio, epocale e contenutistico, dal Msi ad Alleanza Nazionale che si fece forza di governo.
Per cui mentre il Governo Conte bis e il centrosinistra da domani dovranno occuparsi di dossier delicatissimi come la legge di bilancio, l’iva e la politica estera troppo spesso finita nel dimenticatoio (Siria, Libia, Venezuela, Iran, Eastmed), il destracentro potrà dedicarsi a ciò che negli ultimi anni è clamorosamente mancato: analisi, programmazione e strategie.
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