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Cina senza freni. Il pugno duro continua e le parole di Trump non bastano

Le autorità navali cinesi hanno negato ieri a due imbarcazioni militari statunitensi (l’unità anfibia “USS Green Bay” e l’incrociatore “USS Lake Erie”) lo scalo tecnico a Hong Kong. È uno dei vari segnali che la crisi per le proteste nel Porto Profumato sta salendo di livello. Le unità della Us Navy compiono regolarmente questo genere di “visite”, come vengono chiamate in gergo tecnico, ma già altre volte avevano ricevuto lo stop da parte di Pechino. Di solito è un segnale di tensione: per esempio l’ultima è successa a settembre 2018, dopo che gli Usa avevano sanzionato parti della difesa cinese per le relazioni con la Russia (sanzionata a sua volta).

Ieri il presidente Donald Trump ha parlato fugacemente della situazione, dicendo che secondo report di intelligence arrivati allo Studio Ovale la Cina sarebbe pronta a entrare in blocco per sedare, o meglio reprimere, le manifestazioni. Non si tratta di un’esclusiva, diciamo: è da diverso tempo che circolano le immagini degli spostamenti di truppe cinesi nelle aree attorno a Hong Kong, ma il fatto che ne parli ufficialmente la Casa Bianca fa salire ulteriormente vdi livello la situazione.

“Tutti stiano calmi e al sicuro”, twitta Trump nella seconda volta che affronta la crisi hongkonghese in oltre dieci settimane di disordini. La prima disse che si trattava di un affare interno cinese, su cui non voleva prendere posizione. Un distacco che marca la differenza di approccio con altri apparati (il Congresso o il dipartimento di Stato), che in alcuni casi invece hanno preso posizione a favore dei manifestanti — e in forma bipartisan. Ma tenersi alla larga dal dossier è stata finora una tattica interessata: la Casa Bianca sa quanto è delicata la situazione, anche nell’ottica dei rapporti futuri, sia per l’aspetto politico generale, sia per la dottrina di non interferenza di cui Trump è diventato simbolo mediatico globale.

Soprattutto sotto le accuse cinesi: Pechino da una decina di giorni parla di interferenze americane, denuncia che dietro ai manifestanti ci sia lo zampino statunitense, evoca le rivoluzioni colorate e le ingerenze Usa. Esperienza che Trump, e la lettura del mondo che rappresenta, tende a detestare. La manina esterna — su cui spinge una propaganda worldwide costruita attraverso le ambasciate — è una parte dell’impalcatura narrativa con cui i cinesi hanno avvolto le proteste, insieme al rischio che queste possano intaccare il business del Porto Profumato (hub finanziario globale) e destabilizzare l’economia della regione interrompendo i collegamenti (come successo con l’occupazione dell’aeroporto e il successivo blocco dei voli). Il governo cinese ora punta ufficialmente il dito contro i manifestanti, li chiama “violenti”, evoca il terrorismo, parla di reprimere le proteste “senza pietà”. La parola terrorismo è stata usata oggibda Pechino per la seconda volta nel giro degli ultimi tre giorni: è un termine delicato, utilizzato a lungo dal governo cinese prima di avviare il programma di rieducazione culturale nello Xinjiang per esempio.

E allora, prima di andare avanti, serve un occhio ai dati oggettivi che confutano questa narrazione: Inkstone, pubblicazione di qualità che ogni settimana fa uscire non più di sei storie che descrivono la Cina, ha raccolto alcune informazioni in un sondaggio che spiega chi sono e cosa vogliono i manifestanti. Sono i cittadini di Hong Kong, vogliono che la Cina mantenga le promesse sulla semi-autonomia. Nel dettaglio: più o meno divisi in egual misura tra maschi e femmine, la metà di loro appartiene alla fascia di età che va dai 20 ai 29 e quasi l’80 per cento ha un livello di educazione terziaria (università, scuole di specializzazione, college); per due terzi sono parte della middle-class. Nove decimi dicono di lottare per avere la democrazia a Hong Kong, altrettanti chiedono il ritiro definitivo della legge per l’estradizione — che è stato l’innesco che ha aperto le manifestazioni, con i giovani hongkonghesi che vi hanno trovato uno sfogo per una situazione di vita già non soddisfacente, sentendo la cinesizzazione accelerata come un peso esistenziale praticamente ineluttabile sul loro futuro. Tutti (95 per cento) dicono di protestare adesso contro le violenze della polizia, che dell’autoritarismo cinese sono un simbolo. Più della metà è pronta a un’escalation delle proteste e dunque anche delle conseguenze.

Ieri sera, attorno alle undici ora locale, la polizia in assetto antisommossa è entrata per la prima volta all’interno dell’aeroporto — che è diventato il centro, anche mediatico, delle proteste dopo che per due giorni di fila sono stati sospesi i voli (quello di Hong Kong è uno dei cinque scali più grandi del mondo, e al momento della stesura di questo pezzo ha ripreso le attività, ma non è chiaro se nel corso della giornata ci saranno altre proteste, per il terzo giorno di fila). I poliziotti hanno sparato spray urticante contro i manifestanti e ci sono stati scontri. Un agente infiltrato era stato catturato, legato e percosso (ma poi s’è scoperto che forse era solo un giornalista del cinese Global Times); un altro stretto in un angolo ha tirato fuori la pistola d’ordinanza, ma senza sparare. È evidente che la situazione è tutt’altro che calma e sicura, come dice Trump. La Chief Executive (termine sottratto al mondo del business con cui internazionalmente viene chiamato il capo del governo di Hong Kong scelto dalla Cina) dice che la situazione è sul “punto di non ritorno”: “Volete veramente vedere la vostra città, la vostra casa, precipitare nell’abisso? Prendetevi un minuto per pensarci”, ha detto Carrie Lam in conferenza stampa, mentre a poche decine di chilometri la polizia militare cinese e le unità speciali ringhiano. Sono ammassate a Shenzen, che è il cuore dell’industria hi-tech cinese con cui Pechino dovrebbe scalare la vetta del mondo, ma invece potrebbe diventare il simbolo logistico di questa potenziale Tienanmen moderna.

(Foto: Twitter, @Jav3121)

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