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Maguire, la scelta di Trump per l’Intelligence, che non scontenta il Deep State

Quattro tweet di Donald Trump segnano il futuro (almeno momentaneo) dell’Intelligence statunitense.

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Nei primi due annuncia che dal 15 agosto Sue Gordon si dimetterà dal ruolo che occupa, ossia primo assistente e vice del direttore della National Intelligence, referente ultimo di tutte le agenzie dei servizi segreti statunitensi. E dunque lascerà l’ufficio nello stesso giorno del suo capo, Dan Coats, l’attuale Dni che aveva già annunciato le sue dimissioni (non c’era più grosso feeling con la Casa Bianca che lo aveva nominato, dicono da tempo i media americani). La sostituzione diretta di Coats con Gordon era quello che volevano gli apparati, perché — quanto meno per il ruolo ad interim, prima dello screening per la nuova nomina definitiva — avrebbe garantito ordine amministrativo. Ci sono dozzine e dozzine di dossier aperti e molto delicati, la continuità può essere un punto di forza. Ma a Trump non piace l’ordine stabilito e soprattutto vive un perenne contrasto con quegli apparati che quell’ordine vogliono mantenerlo davanti a chiunque sieda nello Studio Ovale (il Deep State, per evocare l’atmosfera di una serie televisiva, oppure alcune dichiarazioni dello stesso presidente, che ne denunciava le pressioni fin dai tempi in cui in campagna elettorale prometteva il “drain the swamp”, ripulire la palude, alludendo agli intrecci di Washington all’interno dello stato profondo).

La definitiva non-nomina di Gordon, di cui si sa da tempo che Trump non voleva i servizi come Dni (al di là del protocollare ringraziamento pubblico), è dunque di per sé una notizia dal valore politico, che delinea lo scenario degli altri due tweet. Dove il presidente ha annunciato il nome del direttore “acting”, ossia con facente funzione: Joseph Maguire.

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Attuale direttore del National Counter-Terrorism Center, ammiraglio in congedo, già comandante della componente navale del comando forze speciali americane, Maguire ha tutte le referenze a posto per non finire in pasto ai giornali come successo al designato precedente, John Ratcliffe, un deputato texano piuttosto vicino alle idee politiche del Prez che i media hanno distrutto, diffondendo magagne trovate sul suo curriculum e costruendogli attorno i presupposti di inadeguatezza all’incarico che hanno portato alcuni senatori — che per il sistema di checks&balances su cui si fonda la democrazia americana avrebbero dovuto scrutinarlo prima di affidargli l’incarico definitivo — a prendere posizioni scettiche pregiudiziali sul suo nome fino al punto di farlo ritirare dal processo di nomina (a quel punto non senza pressioni dalla Casa Bianca).

Per il momento dunque il piano di inserire a capo delle Intelligence un lealista politico trumpiano è messo in pausa, proprio perché sulla nomina definitiva è in corso un braccio di ferro tra presidente e macchina statale. E in questo quadro Maguire è un ottimo nome di compromesso, perché non è al dentro dei meccanismi della comunità d’Intelligence (come Gordon, che vi ha scalato tutti livelli della carriera), ma l’affidamento dell’incarico è comunque visto come continuità (dunque stabilità) nel mezzo del tumultuoso scuotimento tra i ranghi più alti delle agenzie di spionaggio. Il Washington Post ha avuto modo di leggere la lettera di dimissioni che Gordon ha inviato a Trump, in cui ha scritto che si sarebbe dimessa come atto di “patriottismo”, perché il presidente ha “il diritto di scegliere la tua squadra”. Il senatore repubblicano Richard Burr, che presiede la Commissione Intelligence (uno di quegli apparati che su certe nomine ha una voce di peso), s’è detto rattristato dal ritiro di Gordon, ma ha già avallato formalmente la nomina di Maguire (che dalla sua ha anche l’aver ricoperto il ruolo di comandante di unità mitologiche come il Team 6 dei Navy Seal, ossia quello che eliminò Osama).

 

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