Con la sua consueta saggia lungimiranza oggi Romano Prodi sul Messaggero inserisce la crisi di governo italiana nel contesto delle sfide internazionali, a partire dal G7. Nota in particolare che i mercati hanno registrato la caduta del governo giallo-verde come una buona notizia, facendo scendere lo spread. Ovviamente ciò fa infuriare i sovranisti di casa nostra che sentono come gli stessi mercati ci stiano dettando la linea. “Siamo una colonia” dicono. Non è così. I mercati sono anonimi e globali e non rappresentano le aspirazioni dei popoli. Tuttavia non esiste Paese che possa non tener conto di essi e divenire colonia sarebbe invece affidarsi ad altre potenze rispetto all’alleanza atlantica ed europea in cui l’Italia è incardinata dalla fine della seconda guerra mondiale. In quel caso certamente diverremmo colonia, anche perché tali potenze sfrutterebbero la loro posizione dentro i mercati stessi per diminuire la nostra indipendenza. In Europa e nell’alleanza atlantica l’Italia ha invece una sua possibilità di parola e di influenza, solo che si decida ad usarla. Dobbiamo convincerci che da soli saremmo in balia del più forte di turno.
Ora si tratta di vedere se Pd e M5S riusciranno a dare un governo al Paese per navigare nel mare procelloso di questi tempi caotici. Sappiamo che non è facile: tante le distanze e molto forti le polemiche tra i due, anche recentemente. È necessario ricostruire un clima di fiducia vicendevole che per ora stenta ad esistere. Alla ricerca di un governo in comune, si intrecciano altre partite, come quelle dei destini personali di alcuni protagonisti del negoziato stesso.
Da varie parti si leva la richiesta di favorire gli interessi generali su quelli di parte. È giusto ma si deve anche comprendere la prudenza con cui Pd e M5S si stanno parlando. Ha avuto ad esempio ragione Nicola Zingaretti ad aspettare l’inizio ufficiale della crisi per iniziare ad esprimersi: anticipare troppo sarebbe stato un azzardo. Così come la richiesta del Pd di rappresentare l’unico “forno” pare ragionevole: anche se la politica ci ha abituati quasi a qualsiasi cosa, non si può giocare su troppi tavoli. Ora è il tempo dei programmi, cioè del contenuto da dare alla nuova possibile alleanza. Ma il presidente della Repubblica giustamente ha chiesto un nome e su questo si ragiona.
Chi ha a cuore la tenuta della democrazia ed è preoccupato dalle derive sovraniste (derisione, autoritarismo, pieni poteri, odio, razzismo, capri espiatori ecc.) fa il tifo per la nascita di un esecutivo giallo-rosso, conscio tuttavia che ci deve pur essere un contenuto. I tavoli tematici del Pd lavorano ora per offrire una proposta più elaborata ai 5S. I 5 e i 10 punti devono essere trasformati in un programma, almeno a medio termine. C’è da augurarsi che gli ostacoli siano superati: serve un governo sufficientemente “politico” da reggere l’urto sovranista e il caos globale.
Per tali motivi non è peregrino affermare che la figura del futuro premier debba essere anch’essa sufficientemente politica. Non è una questione di competenza ma di logica della politica di coalizione. Un premier “senza partito” sarebbe più facilmente messo all’angolo e si troverebbe presto in difficoltà non disponendo dei consueti strumenti della politica parlamentare: la possibilità di trovare compromessi, mediando tra gli interessi diversi dei partiti. Inutile lamentarsene: i partiti infatti -malgrado le loro mancanze- costituiscono ancora l’architrave della nostra democrazia. Vanno continuamente rinnovati certo, ma non se ne può fare a meno.