In Siria, il conflitto che distribuirà fin da ora i nuovi potenziali strategici in Medio Oriente e altrove, la Turchia ha operato insieme all’Arabia Saudita per costituire il gruppo “ribelle” Jaish Al Fatah, nel 2015, ma l’intervento russo ha fatto subito perdere ogni interesse per la Siria da parte dei sauditi e ha costretto Ankara a concentrare il suo interesse, in Siria, solo verso i curdi del YPG.
Ma verifichiamo una progressiva divergenza di interessi tra Riad e Ankara: se i sauditi hanno impostato la grande esclusione del Qatar, sostanziale alleato economico dell’Iran, nel giugno 2017, anche con la collaborazione degli Usa, la Turchia ha invece sostenuto immediatamente Doha.
Con la costruzione, peraltro, di una nuova base militare turca in Qatar.
Immediatamente dopo il sostegno, anche materiale, della Turchia al Qatar, i sauditi, l’Egitto e gli Emirati si sono riuniti ad alto livello proprio con i dirigenti del YPG curdo.
E Riad ha finanziariamente sostenuto i curdi a Raqqa e nelle altre aree siriane liberate dall’Isis con le armi del YPG, e qui certamente si tratta di uno scontro infra-islamico che riguarda soprattutto la libertà di passaggio verso i mercati europei e, non dimentichiamolo, anche l’egemonia turca o saudita nel Maghreb, reso poroso e instabile dalle primavere arabe Usa o dal demente masochismo di certe potenze europee.
Intanto, Ankara tenta di espandere la propria influenza fuori dal contesto mediorientale, per condizionarlo dall’esterno.
Il punto primario, per Ankara, è in questo caso il Pakistan. C’era già un “Dialogo ad Alto Livello” tra i capi militari dei due Paesi, operante fin dal 2003, ma Islamabad ha la massima fiducia nella Turchia, uno dei pochissimi Paesi islamici a non aver abbandonato il Pakistan nei momenti peggiori.E anche in quelli in cui è venuto a mancare il sostegno di Washington.
E Ankara ha sostenuto esplicitamente e, forse, direttamente il “paese dei puri” nelle sue istanze territoriali e politiche nel Kashmir, in cambio di un sostegno, tecnico e di intelligence, del Pakistan riguardo sempre alla questione curda.
Anche lo scambio di armi è molto vivace, tra Ankara e Islamabad. Soprattutto armi pesanti turche, elicotteri, aerei, carri armati.
Anche in questo caso, la Turchia si è inserita in un contesto di relazioni bilaterali tra gli Usa e il Pakistan che erano molto tese, soprattutto dopo l’uccisione di Osama Bin Laden da parte delle Forze Speciali Usa a Abbottabad.
E, ancora, Ankara persegue sempre i suoi fini commerciali stimolando, all’inizio, lo scambio di sistemi d’arma.
Tornando al nesso tra Turchia e Iran (di cui si è parlato qui) le sanzioni sul petrolio di Teheran, che spesso viene veicolato sul territorio turco, valgono, ha detto recentemente il Segretario di Stato Usa Mike Pompeo, almeno 50 miliardi di Usd l’anno, con una perdita diretta, causata dalle sanzioni, di almeno 10 miliardi.
L’obiettivo esplicito di Washington è quello di eliminare tutta l’esportazione petrolifera di Teheran.
A chi giova? Prima di tutto, il blocco dell’export petrolifero iraniano favorisce grandemente i produttori nordamericani, che ormai vendono almeno 2575 barili/giorno.
Gli Usa sono ormai i primi produttori al mondo di greggio, e superano di poco sia i sauditi che la Federazione Russa.
In secondo luogo, le sanzioni contro l’Iran favoriscono anche i sauditi e gli altri produttori sunniti del Golfo, che coprirebbero, con il loro petrolio, il mercato prima venduto dagli iraniani.
E i più duri contro le sanzioni Usa sono stati, fin dall’inizio, la Cina e la Turchia. I due maggiori consumatori di petrolio iraniano, in proporzione, e i due Paesi che stanno costruendo, con la dovuta lentezza, due aree geopolitiche sempre più lontane dalle possibili operazioni e influenze degli Stati Uniti.