Tira un’aria non poco tesa dalle parti di Pechino. La crisi di Hong Kong sta infatti gettando la Repubblica Popolare in uno stato di crescente nervosismo: le ragioni di questa inquietudine stanno aumentando e, dietro le tensioni, si staglia un confronto sempre più serrato con gli Stati Uniti d’America.
Innanzitutto troviamo la questione di Taiwan. Pechino ha infatti minacciato di colpire con delle sanzioni tutte le società americane coinvolte nella vendita degli aerei F-16 a Taipei, a meno che Washington non decida di retrocedere dall’accordo. Il riferimento è all’intesa commerciale recentemente siglata dai due governi per la fornitura di sessantasei velivoli: un affare dal valore complessivo di otto miliardi di dollari. Un atto anche politicamente significativo, visto che era dai tempi dell’amministrazione di George H. W. Bush che gli americani non vendevano all’isola dei caccia. In particolare, è stato il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang, ad intimare agli Stati Uniti di cessare i propri legami economico-militari con l’ “isola ribelle”, affermando: “Prenderemo tutte le misure necessarie per tutelare i nostri interessi”.
Già un mese fa, la Repubblica Popolare aveva del resto duramente criticato un altro accordo dal valore di poco superiore ai due miliardi di dollari, per il rifornimento a Taiwan di carrarmati e missili Stinger. Il nodo dei rapporti commerciali e militari tra Washington e Taipei non è esattamente nuovo e, dagli anni ’80, è spesso risultato al centro delle tensioni tra Stati Uniti e Cina. Ovviamente, questa volta, il problema assume una dimensione ancora più spinosa, visto che la nuova intesa è stata annunciata nel pieno svolgimento della crisi di Hong Kong. Pechino teme che Washington stia cercando di aumentare la sua pressione attraverso Taiwan.
E la cosa non può che innervosirla. Se ieri il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha cercato di gettare acqua sul fuoco, al Congresso si sono invece levate voci bipartisan a favore dell’intesa commerciale. Il democratico Eliot Engel e il repubblicano Michael McCaul (entrambi membri della commissione per gli affari esteri alla Camera dei rappresentanti) hanno affermato in una dichiarazione congiunta che questa vendita manderà un “messaggio forte sull’impegno degli Stati Uniti nei confronti della sicurezza e della democrazia nell’Indo-Pacifico.” Una linea in buona sostanza condivisa dai senatori repubblicani, Marco Rubio e Ted Cruz.
Lo scontro tuttavia non avviene solo sul piano militare ma anche su quello propagandistico. E Pechino è arrivata non a caso ai ferri corti con i colossi del web statunitensi, come Facebook e Twitter. Entrambi hanno infatti sospeso i profili che ritenevano far parte di una strategia cinese, volta a screditare le proteste in atto ad Hong Kong. Twitter ha reso noto di aver eliminato circa mille account “di provenienza” cinese, mentre Facebook ha chiuso sette pagine in grado di raggiungere ben quindicimila profili. In particolare, si sarebbe trattato di canali propagandistici filocinesi. Queste mosse non sono state particolarmente apprezzate da Pechino, che – attraverso il Global Times – ha criticato i colossi tecnologici americani, sostenendo che quella in atto risulterebbe “una plateale dimostrazione di doppiezza in azione: sostenere una cosa, e praticare il contrario”.
In questa situazione tumultuosa, la Repubblica Popolare ha confermato la detenzione amministrativa del dipendente del consolato britannico Simon Cheng Man-kit. A tal proposito, lo stesso Shuang ha dichiarato: “”[…] la polizia di Shenzhen gli ha ordinato di scontare quindici giorni di detenzione amministrativa per violazione delle norme sulla gestione della sicurezza pubblica”. “Voglio anche sottolineare”, ha proseguito, “che questo lavoratore è un cittadino di Hong Kong – non un cittadino britannico – ed è cinese. E questa è interamente una questione interna della Cina.” La linea di difesa, insomma, resta sempre la stessa: la crisi di Hong Kong sarebbe un affare interno alla Repubblica Popolare e come tale dovrebbe essere trattato. L’unica cosa certa è che la pressione internazionale che sta progressivamente crescendo su Pechino somiglia molto all’indignazione che esplose nel 1989, ai tempi della protesa di Piazza Tienanmen. Lo stesso Donald Trump – che sul dossier di Hong Kong si era mostrato molto prudente – ha recentemente assunto una posizione più dura, affermando che l’accordo commerciale con Pechino potrebbe rivelarsi arduo da concludere, qualora la situazione sfuggisse di mano alla Repubblica Popolare.