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Ora gli Usa si schierano in Libia. Arriva l’ambasciatore e Maitig parla al WT

C’è una (non)coincidenza interessante attorno alla Libia che riguarda gli Stati Uniti. Una dichiarazione decisa e assertiva che arriva dal nuovo ambasciatore Usa nel Paese nordafricano, e un’intervista al vicepremier Ahmed Maitig, personaggio di spicco del governo onusiano di Tripoli, motore della macchina delle relazioni internazionali del Gna.

L’arrivo di un nuovo ambasciatore degli Stati Uniti in Libia segnala “il desiderio di Washington di intensificare l’impegno diplomatico” con tutte le parti in conflitto. “Il nostro obiettivo è chiaro: porre fine ai combattimenti e sostenere gli sforzi dell’Onu guidati dal rappresentante speciale Ghassan Salamé per raggiungere una soluzione politica negoziata alla crisi in Libia”, dichiara l’ambasciata Usa.

Gli Stati Uniti sono stati “incoraggiati” dalla tregua dell’Eid, che ha dimostrato “la necessità di un cessate il fuoco globale e il raddoppio degli sforzi per rilanciare un processo politico”, scrive la sede diplomatica statunitense a proposito di questi giorni in cui le parti hanno accettato di fermare le armi, sebbene il signore della guerra della Cirenaica (Haftar) abbia violato gli impegni presi bombardando l’aeroporto civile di Tripoli, appena poche ore dopo aver accettato la richiesta Onu.

“Crediamo che tutti i libici meritino di vivere in pace e trarre vantaggio dalla ricchezza del Paese. Gli Stati Uniti chiedono a tutte le parti esterne di unirsi a questo sforzo. In qualità di ambasciatore, mi impegno a lavorare per porre fine a questo conflitto. Sono ansioso di incontrare al più presto un’ampia sezione di libici e non vedo l’ora che arrivi il giorno in cui le condizioni di sicurezza ci consentiranno di tornare in Libia”, ha scritto in una dichiarazione la feluca americana Richard Norland.

Parole che collimano perfettamente con la richiesta avanzata da Maitig, in un’intervista concessa al Washington Times (giornale non lontano dal mondo trumpiano), che ha chiesto a Washington di prendere in mano la politica e la diplomazia attorno al dossier, perché — dice il vicepremier libico — l’unica via possibile è una soluzione negoziata e appunto politica: “È il nostro governo, non Haftar l’alleato ideale per gli Stati Uniti”.

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