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La guerra valutaria e la “non strategia” del dollaro e dello yuan

Richard Gardner, ambasciatore a Roma negli anni in cui Billy Carter era inquilino alla Casa Bianca, è rimasto famoso non tanto per le sue azioni diplomatiche in Italia in un periodo molto complesso per il nostro Paese, quanto per un suo libro, la cui prima edizione risale al 1956 ma che è stato riedito più volte, su “Sterling Dollar Diplomacy: the Origins and the Prospects of Our International Economic Order” (La diplomazia del dollaro e della sterlina: le origini e le prospettive del nostro ordine economico internazionale). Nel volume, frutto di intense ricerche a Oxford dove aveva passato due anni come Rhodes Scholar (una delle borse di ricerca più ambite dai giovani americani) avendo anche accesso a documenti (allora) riservati di John M. Keynes, si tracciava la stretta collaborazione tra sterlina e dollaro – ossia tra Regno Unito e Stati Uniti – negli anni in cui terminava la Seconda guerra mondiale e si ponevano le premesse per i successivi trenta anni di rapida crescita economica.

Oggi ci vorrebbe una strategia di dollaro, euro e yuan (ossia di Usa, Europa e Cina) per porre le basi di un nuovo periodo di crescita dell’economia globale. Ce ne sarebbe urgente esigenza in una fase in cui è iniziato un nuovo rallentamento economico internazionale che per i Paesi più fragili minaccia di diventare una recessione pesante quasi come quella iniziata nel 2008.

Invece, sta iniziando una guerra valutaria, per ora in modo strisciante, ma tale da poter diventare seria nel cuore dell’estate. Lo abbiamo già annunciato, su questa testata a fine giugno, a margine al G20 di Osaka. Questa volta si profila una doppia guerra valutaria, o se volete due guerre valutarie parallele che riguardano, nel bacino dell’Atlantico, il dollaro e l’euro e, in quello del Pacifico, il dollaro e lo yuan. E nel frattempo, il cambio della sterlina (valuta che dal novembre 1967 non ha più il lustro che aveva una volta ma che conta ancora nel Commonwealth britannico) è in caduta libera a ragione, principalmente della Brexit e dalla complicata (per utilizzare un aggettivo elegante) situazione politica interna. È un conflitto senza strategia apparente o comprensibile.

Lasciamo da parte la sterlina, il cui deprezzamento non è frutto di un disegno politico (anzi il primo ministro, Boris Johnson, vorrebbe ben altro, un apprezzamento che sarebbe simbolo del vigore britannico), l’imbroglio è causato del fatto che Washington vorrebbe un deprezzamento del dollaro nei confronti sia dell’euro sia dello yuan: il ribasso dei tassi direttori può essere letto in questa direzione. Mentre Pechino aspira ad un deprezzamento dello yuan nei confronti del dollaro, delle monete del bacino del Pacifico ed anche, quindi, dell’euro. Deprezzamenti competitivi come negli anni Trenta del secolo scorso.

Il deprezzamento del dollaro rispetto all’euro può comportare vantaggi di breve periodo all’Italia. Verrebbe effettuato principalmente inondando il mercato con greenback. Si prospetta un’iniezione tra i 200 e i 400 miliardi di dollari da collocare in titoli di Stato europei. Dato che le autorità monetarie (e politiche) americane non intendono rimetterci la camicia investendo in bonds che non rendono, il solo mercato sufficientemente grande ed in cui, a ragione dello spread, si prospettano rendimenti interessanti è quello italiano. Un’operazione del genere avrebbe il risultato di ridurre, nell’arco di poche settimane, lo spread con benefici sia sulla finanza pubblica sia sulla crescita reale. Tuttavia, un deprezzamento del dollaro rispetto all’euro avrebbe effetti negativi sul nostro export verso gli Usa (circa 43 miliardi di euro nel 2018, di cui quasi 13 miliardi nel settore di trasporti, il comparto più colpito).

Al di là dei transitori benefici per l’Italia in termini di spread, questa scombinata guerra valutaria aggraverebbe le tensioni in materia di commercio internazionale e, quindi, le spinte verso una recessione che proprio per il Bel Paese minaccia di essere pesantemente dura.

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