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Ecco come ti rieduco le minoranze. La Cina e i diritti civili (si fa per dire)

In occasione del decimo anniversario della rivolta del luglio 2009 da parte della minoranza etnica musulmana uiguri, il governo cinese ha organizzato (era metà luglio) un tour di diversi giorni per vari giornalisti internazionali. Tra i reportage è interessante quello della prestigiosa rivista giapponese Nikkei, che parte mettendo subito in chiaro che questo genere di attività è un tentativo di Pechino di disinnescare le critiche occidentali su quello che la Cina sta facendo nello Xinjiang, regione turbolenta dove la minoranza turcofona uiguri è irrequieta e ha anche dato in più di un’occasione dimostrazione di poter aderire a istanze jihadiste contro il potere centrale.  

Cuore del tour stampa – guidato sempre dai funzionari cinesi, che non hanno lasciato mai i giornalisti liberi di muoversi – sono stati i centri di rieducazione. Pechino li chiama così, altre parti della Comunità internazionale, per esempio il dipartimento di Stato, li ha definiti campi di internamento – “la più grossa macchia del secolo” l’ha chiamata il segretario Mike Pompeo, dove vengono compiuti “lavaggi del cervello 24 ore su 24”, ha detto il vicepresidente Mike Pence. Sono luoghi in cui soprattutto i giovani di etnia ugura – maggioranza relativa nella regione autonoma che si trova al confine tra Cina e Pakistan, Kirghizistan, Tagikistan – vengono condotti per ri-orientare i propri comportamenti.

Detto così sembra fin troppo soft, ma in realtà gli uiguri vengono quasi sempre portati nei campi in maniera forzata, a volta anche con metodi di polizia predittiva – sebbene le testimonianze dicano il contrario, ma è evidente anche ai giornalisti che li hanno potuti visitare col fiato sul collo dei mastini cinesi che tutto è stato stato organizzato con la massima definizione dal governo. Tra queste testimonianze, per esempio, c’è quella di un ragazzo venticinquenne che racconta alla Nikkei come prima di entrare nel rehab culturale – creato dagli psicoterapeuti del Partito comunista – fosse un potenziale jihadista, formatosi su Internet a furia di guardare i video dello Stato islamico dai quali aveva anche imparato a costruire bombe. Un bel quadretto ben confezionato.

“Non sono stato in grado di distinguere ciò che era giusto e sbagliato”, dice in mandarino, ma ora grazie ai centri di rieducazione, aggiunge, è in grado di discernere: il giusto sta nel Partito. In altre storie, altri uiguri raccontano di aver capito grazie alla rieducazione di non essere stati accoglienti e “amichevoli” con i cinesi Han, ma ora si sono redenti. Una ragazza di 26 anni racconta che non voleva che i suoi figli giocassero con gli altri cinesi, ma adesso comprende di aver sbagliato e ringrazia il centro per averle insegnato “l’arte del cucito” – “il lavoro consono”, lo chiama il partito di Pechino – e non vede l’ora di poter aprire un negozio come sarta “appena potrò uscire”. Ecco, il finale stride: perché lei diceva ai giornalisti di essersi recata volontariamente nel centro, ma poi sembra ammettere di non essere altrettanto libera di abbandonarlo.

Le denunce parlano chiaro: molte organizzazioni umanitarie dicono che in realtà sono dei campi di detenzione in cui innanzitutto agli uiguri viene imposto l’abbandono della turcofonia attraverso lo studio forzato del mandarino, la lingua dell’etnia Han. È la prima forma di violenza culturale, la lingua appunto: poi si passa alla religione. La Cina, il Partito, la patria, devono sostituire il credo islamico. In pratica, come più volte segnalato, nello Xinjiang si stanno cancellando gli uiguri: una campagna con cui Pechino vuole eliminare una delle principali problematiche di sicurezza interna. Report dicono che le autorità agiscono che sulla base dei big data: ossia, partendo da determinate condizioni registrate (etnia, età, religione, e poi contatti online e attività di vario genere trattati) la polizia può decidere che sei un soggetto potenzialmente a rischio e dunque portarti nei centri anche se non hai ancora commesso reati.

La propaganda cinese ha costruito la narrazione da dare in pasto ai giornalisti, ma la situazione dello Xinjiang ha svariate altre testimonianza – sebbene sia un luogo in cui i media e le organizzazione di monitoraggio sui diritti possano avvicinarsi. Un caso è quello di Mehrigul Tursun, una dei pochi detenuti fuggiti all’estero. A luglio ha partecipato a un evento organizzato a Tokyo da Amnesty International e Università Meiji, era in videochiamata da un posto non noto degli Stati Uniti, dove vive da rifugiata: una storia pazzesca, passata dall’Egitto e dalla separazione forzata dalle tre figlie. Sono campi di internamento, dice, e sono qui perché tutto il mondo deve sapere: le persone detenute sono di tutte le estrazioni sociali, banchieri, insegnanti, intellettuali, “gente che non ha bisogno di alcuna rieducazione”, ma portata lì solo perché di etnia uigura.

 (Foto: Wikipedia)

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